Umberto Galimberti, I vizi capitali e i nuovi vizi

«[…] i vizi, da espressione di una “tipologia” umana, diventano manifestazione della sua “psicopatologia”. E così fuoriescono dal mondo morale per fare il loro ingresso in quello patologico. Non più vizi, ma malattie, malattie dello spirito» (U. Galimberti, I vizi capitali e i nuovi vizi)

Sembra che nulla sia cambiato dal 2003 – anno di pubblicazione del saggio – ad oggi. O per meglio dire, i pensieri di allora, profondamente radicati nell’individualità di ciascuno, che finiscono per coinvolgere la collettività intera, trovano una conferma tanto amara, disincantata e tetra, quanto più illuminata da un’osservazione pregna di razionalità, che non lascia spazio a paragoni, jeux de mots e ambivalenze.

In due parti – l’una intitolata Vizi capitali e l’altra Nuovi vizi – il filosofo costruisce un percorso, il cui traguardo si confonde e trasfonde nel punto di partenza, sotto il segno del concetto di “dissoluzione“. Se per Bernard de Mandeville – autore di un trattato da cui lo studio riflessivo di Umberto Galimberti prende le mosse – il male è all’uopo per la società, poiché senza di esso si avvierebbe ineluttabilmente verso il suo stesso dissolvimento, allo stesso modo, il filosofo evidenzia come e quanto il nichilismo, il vuoto esistenziale che domina tanto i singoli individui, quanto la communitas, si aggirano quasi indisturbati nel mondo contemporaneo.

Nella fattispecie, ciò che acquista una peculiare pregnanza, che – del resto – può essere identificata come la tesi di fondo del medesimo saggio, è l’antitesi tra l’etica della mortificazione, quale pilastro del cristianesimo, e l’elevato livello di benessere materiale che caratterizza la società occidentale.

Onde ne deriva che la soddisfazione economica, il possesso di un bene puramente materiale, e perciò transitorio e fugace, impoverisce la moralità, la dimensione spirituale. Infatti, «non sono mai le virtù, ma sempre i vizi, a dirci chi è di volta in volta l’uomo».

Eppure, ci sono vizi e vizi. I vizi capitali, aristotelicamente definiti “abiti del male”, in quanto figli di azioni iterate o, accettando la lectio medioevale, quale risultato della disobbedienza della volontà divina, sono ampiamente noti: ira, accidia, invidia, superbia, avarizia, gola, lussuria.

Si potrebbe dire che la motivazione a essi connaturata, e che flagella gli animi, abbia il suo proprio fondamento nel possesso di ideali che, eccessivamente elevati, non si possono possedere, bensì solo sfiorare:

«Gli ideali molto elevati si possono toccare per un istante, ma non possedere per sempre. E la noia ha il sapore di chi ha la sensazione di aver perso qualcosa che ha solo toccato e mai posseduto».

E così, l’ira pone il singolo – avvertendo la frantumazione perniciosa del suo personale universo di valori – in conflitto con il mondo circostante. L’accidia (o melancholy, o spleen, o ennui) inaridisce l’anima, che naufraga nelle onde dell’incertezza, nella solitudine infinita e senza rimedio del deserto esistenziale.

L’invidia che nasce dal confronto con gli altri, un confronto talora imposto dalla stessa società, talora ricercato autonomamente sulla base della convinzione – eretta su basi non tanto aleatorie, quanto piuttosto capziose – di valorizzare il proprio Io.

E poi, ancora, la superbia, imparentata sì all’invidia, ma dalla quale si contraddistingue per la pretesa di sentirsi e giudicarsi superiori agli altri; dunque, una volta di più, ciò che è in gioco è il riconoscimento del valore di sé.

L’avarizia, basata sulla lex del “sono ciò che ho”, laddove il denaro – sinonimo del possesso di potere – non è avvertito come mezzo, quanto piuttosto come il fine ultimo, che, di conseguenza, impedisce la realizzazione della vita. A tal proposito, Galimberti scrive:

«L’avarizia è allora una forma della volontà di potenza che, per mantenersi, non deve mai esercitarsi».

La gola è anch’essa un vizio, con il quale però si combatte contro qualcosa di più grande: l’angoscia dell’esistenza, il vuoto che ne mette in scena la sospensione in tutta la sua drammaticità. Per finire, la lussuria, che spazza via il senso della misura, dell’equilibrio, della vergogna (da vereor gognam, “temo la gogna, la mia esposizione pubblica”).

A questi vizi tradizionali si aggiungono, oggigiorno, nuovi vizi, che Galimberti etichetta come “tendenze collettive”, distruttrici degli antichi valori, di cui ormai non ne è rimasto che un appannaggio, un mero riflesso, forse troppo flebile per poter essere rinvigorito.

Tali nuovi vizi sono così classificati: consumismo, conformismo, spudoratezza, sessomania, sociopatia, diniego e vuoto. Se da un lato mot d’ordre è la consapevolezza di ciò che è (o che non è) il mondo contemporaneo e della post-modernità, dall’altro bisogna considerare il nichilismo, come spettro palesemente visibile che domina questo oscuro palcoscenico.

È qui che l’essere nichilista coincide sia con la mancanza di originalità – da cui ne deriva l’omologazione come conditio sine qua non – sia con la crisi dell’identità personale, laddove l’inconsistenza delle cose materiali riduce a frammenti, per l’appunto, l’identità.

Il risultato è la cessazione della contrapposizione tra essere e apparire, poiché ciò che resta è solamente l’apparenza, l’immagine del proprio essere, la rappresentazione di sé, il cui valore dipende dalla cosiddetta “incoscienza della coscienza omologata”.

«Per esserci bisogna apparire». La vita non è più vita, bensì una mostra, pubblicizzazione del privato, «proprietà comune», come se ogni attimo vissuto, ogni istante trascorso assume significato solo in relazione ai like su Facebook o Instagram, pena l’esclusione sociale.

Ciò a conferma del vuoto dell’esistenza odierna, una folla di individui che si fanno largo in una società altrettanto anonima, dove si annulla il confine tra bene e male, dove non si è più in grado di scindere il pubblico dal privato, come poc’anzi si diceva, «dove il tempo è vuoto, l’identità non trova alcun riscontro, il senso di sé si smarrisce e l’autostima deperisce». Ed ecco la fusione, cui si accennava all’inizio: la dissoluzione della società passa attraverso lo smarrimento prima e la frammentazione poi della propria identità.

© Antonietta Florio

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12 commenti

  1. […] In un contesto siffatto, dove “l’unica certezza è l’incertezza e l’unica costante è il cambiamento” (per citare il sociologo Zygmunt Bauman), si riscopre l’importanza di rilettura dei classici, di risalire in certo senso alle origini della nostra storia e comprendere (o perlomeno effettuare un tentativo di comprensione) di come e quanto la situazione sia radicalmente mutata tra vizi capitali e nuovi vizi. […]

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