Italo Calvino, Ti con zero

«[…] il passato dispone di noi con indifferenza cieca e una volta che ha smosso quei frammenti di sé e nostri non si cura di come noi li spenderemo. Noi non eravamo che la preparazione, l’involucro, all’incontro dei passati che avviene attraverso di noi ma che fa già parte di un’altra storia , della storia del dopo: gli incontri avvengono sempre prima e dopo di noi e vi agiscono gli elementi del nuovo a noi preclusi: il caso, il rischio, l’improbabile.» (I. Calvino, Ti con zero)

Ti con zero, pubblicato per la prima volta nel 1967, è una raccolta di racconti che si configura come una sorta di prosieguo della prima serie delle Cosmicomiche. Difatti, la materia sembra essere la stessa, se si considera il fattore spaziotemporale che, posto oltre i confini del mondo umano, svolge un ruolo fondamentale. Questo spazio-tempo dilatato è sì il centro da cui si dipanano le varie storie, ma in esso si cela altresì l’intento di tracciare la storia del mondo o di una filosofia naturale.

La presentazione che lo stesso autore dà di volta in volta dei suoi scritti risulta illuminante anche in questo caso, poiché ci immette sin da subito nei binari della narrazione, non limitandosi dunque a una mera esposizione della materia trattata. In tal senso, sembra opportuno interrogarsi sul significato del titolo che, tuttavia, Calvino si appresta a chiarificare. Se è vero che Ti con zero è “una formula tipica dei libri di cosmogonia o di teoria della relatività”, non è meno vero che l’adozione di un atteggiamento da astronomo è finalizzato a «raccontare situazioni tipicamente umane, situazioni drammatiche e angosciose, e risolverle con procedimenti di astrazione come se si trattasse di problemi matematici».

Ciò si riferisce particolarmente all’elemento temporale, laddove «ogni secondo è un universo, il secondo che io vivo è il secondo in cui io abito». Qui è ravvisabile il lavoro di Calvino: l’abolizione del prima e del dopo, del passato e del futuro, la fuga e la sottrazione dalla legge del divenire che imprigiona gli esseri umani, impedendo loro di vivere e godere del secondo, appunto, dell’attimo che «è sempre qualcosa di particolarmente intenso, che prescinde dall’aspettativa del futuro e dal ricordo del passato, finalmente liberato dalla continua presenza della memoria».

Divisa in tre parti – rispettivamente Altri Qfwfq, Priscilla, Ti con zero – quest’opera calviniana ha come unico protagonista Qfwfq, già incontrato come si è detto poc’anzi, nelle precedenti Cosmicomiche. Qfwfq-Calvino è, e può essere, ognuno di noi, una sorta di alter ego, di guida, il saggio che si trova nelle nostre zone più profonde e inaccessibili, quell’inconscio che resta spesso sepolto e a cui talvolta bisognerebbe prestare ascolto. E così, per districarsi in questo mondo, per compiere le nostre scelte nel mare di possibilità tutt’altro che illimitate, partiamo da una sola e unica consapevolezza:

«[…] intorno a me si dispiegavano tutte le forme che il mondo avrebbe potuto prendere nelle sue trasformazioni e invece non aveva preso, per un qualche motivo occasionale o per un’incompatibilità di fondo: le forme scartate, irrecuperabili, perdute.»

Insomma, nel momento stesso in cui guardiamo le cose per quelle che realmente sono, pensiamo a come invece sarebbero state se qualcosa fosse andata diversamente, onde ne deriva un senso di tristezza. Non è “la pace amara della rassegnazione” – per citare David Herbert Lawrence – è piuttosto la rinuncia a comprendere ciò che si vive, l’oblio di ciò che si è capito fino a un certo punto, per lasciare spazio a una nuova intuizione: il mondo di ciò che è e quello delle cose che avrebbero potuto essere. Due mondi che, sebbene non siano esattamente la medesima cosa, appartengono a un unico sistema, rappresentano, anzi, sono il tutto (l’essere, il non-essere, ciò che potrebbe e che avrebbe potuto essere) del mondo. Nel racconto I cristalli, inserito nella parte prima (Altri Qfwfq), Qfwfq-Calvino scrive a tal proposito:

«io immaginavo una lenta espansione uniforme, sull’esempio dei cristalli, fino al punto in cui il cristallo-io si sarebbe compenetrato e fuso col cristallo-lei e forse insieme saremmo diventati una cosa sola col cristallo-mondo; lei [Vug] già sembrava sapere che la legge della materia vivente sarebbe stata il separarsi e il ricongiungersi all’infinito.»

Ma questa totalità non forgia un mondo di cristallo; al contrario, essa disegna un mondo imperfetto, amorfo, corroso, frammentato e soggetto a un cambiamento perenne. Un insieme di sostanze in perpetuo movimento, una disposizione disordinata di atomi, una miscela di elementi soggetti unicamente alla legge della casualità. Ed è in questo disordine che l’uomo vive e agisce, essendo la simmetria e, dunque, l’ordine «uno sfilacciato rattoppo della disgregazione», della distruzione.

La postulazione di un tale assioma rimanda al rapporto dentro-fuori, pieno-vuoto, in cui il pieno si identifica con l’io e l’istante in cui mi trovo in questo esatto momento, mentre il vuoto è il mondo e il futuro, ma che

«avrebbe potuto essere me però in quel momento non lo era e in fondo non lo sarebbe mai stato, era la scoperta di qualcos’altro che non era ancora qualcosa ma comunque non era m, o meglio non era me in quel momento e in quel punto e quindi era altro, e questa scoperta mi dava un entusiasmo esilarante, no, straziante, uno strazio vertiginoso, la vertigine d’un vuoto che era tutto il possibile, tutto l’altrove l’altra volta l’altrimenti possibile […]»

Un vuoto che scaturisce dal desiderio, il quale a sua volta trae origine da una precedente insoddisfazione e che neanche lontanamente è comparabile a uno stato di mancanza, giacché il qualcosa desiderato comincia ad esistere nel momento stesso in cui lo si desidera; del resto, «prima [di desiderarlo] chi sapeva che c’era?». Ed ecco che la questione dello spazio e del tempo s’interseca con l’altro interrogativo di uguale pregnanza, intriso di incertezza e focalizzato sulla definizione della propria identità e di cui Calvino ne parla magistralmente in termini scientifico-matematici:

«Tanto che alle volte mi prende l’incertezza se io sono veramente la somma dei caratteri dominanti del passato, il risultato d’un serie d’operazioni che davano sempre un numero maggiore di zero, o se invece la mia vera essenza non è piuttosto quella che discende dalla successione dei caratteri sconfitti, il totale dei termini col segno meno, di tutto ciò che nell’albero delle derivazioni è rimasto escluso soffocato interrotto: il peso di quello che non è stato m’incombe addosso non meno schiacciante di ciò che è stato e non poteva essere.»

Fino a giungere alla definitiva e immutabile presa di coscienza: «Vuoto separazione e attesa, questo siamo», costretti a vivere in un universo che pulsa fra due momenti estremi e che, riprendendo il concetto nietzschano dell’eterno ritorno, infinitamente si è ripetuto, ancora si ripete e si ripeterà per sempre nel secondo esatto in cui adesso ci troviamo. Pertanto, se talvolta ci sembra che la vita scorra parallelamente a noi, in realtà, anche in quei momenti siamo prigionieri delle intersezioni dello spazio e del tempo. Inoltre, pur ammettendo l’assoggettamento alla legge della ripetizione, il tempo – essendo la somma di istanti finiti e caratterizzati da incomunicabilità, ma infinitamente presenti – è un tempo pieno. È, per l’appunto, ti con zero, ossia l’universo personale entro i confini del quale ci si arrocca, ma solo col presupposto di rinunciare a una visione soggettiva a vantaggio di una configurazione oggettiva, il cui passaggio comporta uno spostamento col tempo, pur mantenendosi immobili in esso.

© Antonietta Florio

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Un commento

  1. utile per una riflessione,ma non così negativa come quella che si palesa in questo abstract. I suoi e i sentiti di ogni persona sono forzatamente e giustamente differenti

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