«L’assurdo nasce dal confronto fra il richiamo umano e il silenzio irragionevole del mondo. È questo che non bisogna dimenticare; è a questo che bisogna aggrapparsi, poiché possono nascerne le conseguenze di tutta una vita. L’irrazionale, la nostralgia umana e l’assurdo, che sorge dalla loro intima conversazione: ecco i tre personaggi del dramma, che deve necessariamente finire con tutta la logica di cui un’esistenza è capace.» (A. Camus, Il mito di Sisifo)

«C’è il mito di Sisifo e il mito del mito di Sisifo di Albert Camus», questa primissima frase della prefazione di Corrado Rosso al volume, appunto, di Camus, Il mito di Sisifo non potevano essere calibrate in altro modo. Ma chi è Sisifo? Nella versione di Omero è un uomo saggio e prudente, secondo una tradizione completamente opposta è invece un astuto e un ingannatore, un brigante, un «lavoratore degli inferi». Qualunque sia la prova che egli deve affrontare è l’incarnazione per eccellenza dell’eroe assurdo, padrone dei propri giorni e forgiatore del suo destino attraverso la serie infinita di azioni che quotidianamente compie.
Il termine assurdo è – come dichiara lo stesso Albert Camus nella brevissima introduzione al saggio – il punto di partenza, che acquista una legittimazione ancora maggiore nel quesito fondamentale della filosofia, quello cioè se la vita vale o non vale la pena di essere vissuta. Una domanda a cui l’autore cercherà se non di rispondere, quantomeno di tentare a darne una risposta che sia a un tempo esaustiva e incisiva.
Onde ne deriva da una parte il divorzio tra l’uomo e la vita, e dall’altra un connubio tra il suicidio, che altro non è che un’aspirazione al nulla, e l’assurdo. Ma, come i maghi ricorrono ai trucchi nei loro numeri, allo stesso modo l’uomo può far uso di un certo tipo di elisione che si chiama speranza. Ma come può l’uomo arrivare a questo punto di degradazione? Per Heidegger è chiaro. All’origine vi è un senso di inquietudine (la nausée sartriana), la coscienza di non essere padroni del proprio tempo, ma di essere (tras)portati da esso, di essere vittima della consuetudine:
«[l’uomo] appartiene al tempo e, dall’orrore che lo afferra, lo riconosce come il suo peggior nemico. Il domani: egli desiderava il domani, quando tutto il suo essere avrebbe dovuto ribellarvisi. Questa rivolta della carne è l’assurdo.»
Ciò accade perché il tempo – e con esso la vita – prima dimostra e poi offre la soluzione. Parallelamente succede di avere conoscenza di qualcosa (o qualcuno), ma in realtà è solo l’immaginazione di conoscenza, in quanto le numerose e pluristratificate spiegazioni e teorie scientifiche si risolvono in un’incertezza di fondo, in un’ipotesi destinata a restare tale. È assurdo! E anche il mondo lo è.
Allora la distanza fra l’uomo e il mondo è regolata e, in certo senso mediata, dall’absurd. Non solo, l‘assurdo confronta i due elementi, nasce dal paragone tra un dato di fatto e una certa realtà, ragion per cui esso [l’assurdo] non è un tratto caratteristico, esclusivo dell’uomo o del mondo, ma, esistendo nell’universo dell’uomo, fa parte di entrambi. Camus lo definisce «un confronto e una lotta senza sosta», senza speranza (che non vuol dire disperare) e alimentata da un’insoddisfazione perenne.
«È – scrive Camus alcune pagine dopo – il divorzio fra lo spirito che desidera e il mondo che delude, è la mia nostalgia di unità; l’universo disperso e la contraddizione che lega l’una all’altro.»
È così che l’essere umano vive la sua vita nell’inferno del presente e, ben lungi da sentimenti e desideri megalomani, vuole semplicemente vivere ciò che è e per ciò che sa. Qui, si ha la risposta alla domanda sul senso della vita, il quale senso è direttamente proporzionale all’intensità con cui si vive, alla vivacità – parafrasando Nietzsche – con cui si fa esperienza della vita, all’indipendenza soggettiva, alla libertà di godersi l’oggi senza rivolgere il pensiero a ciò che sarà domani (l’eterno ritorno nietschiano).
Di conseguenza, l’assurdo consiste nello stilare la lista delle preferenze, nel costruire una scala gerarchica dei valori. Ciò che più conta, in effetti, non è la quantità e la varietà delle esperienze che vanno accumulandosi, bensì la qualità e prima di questa la scelta radicale fra la contemplazione e l’azione.
«A due uomini che vivono lo stesso numero di anni, il mondo fornisce sempre la stessa somma di esperienze. Siamo noi che dobbiamo essere coscienti. Sentire la propria vita, la propria rivolta e la propria libertà il più intensamente possibile, equivale a vivere il più possibile. Dove regna la lucidità, la scala dei valori diventa inutile.»
Quando Camus si sofferma sulla creazione («creare è vivere due volte») e, più particolarmente, sull’opera d’arte non addita questa come una via d’uscita, quanto piuttosto come un fatto sintomatico del mal d’esprit, in cui tutti sono ineluttabilmente condannati a inoltrarsi e disperdersi, a causa dell’incomprensione che traspare dal mondo. Ne consegue che se l’opera d’arte si fa testimone della presenza dell’artista sulla scena mondiale, il filosofo -imprigionato nel suo sistema di pensiero – separa l’uomo dalla sua esperienza.
Tanto l’artista quanto il filosofo sono creatori e sia l’uno che l’altro rappresentano, per quanto diversi, due destini uniti sì dalla fatalità della morte, ma anche dalla libertà derivante dalla fortuna, dalla gioia e, in ogni caso, dal suo essere padrone del (suo) mondo.
Da Sisifo a Kierkegaard a Nietzsche, fino al romanziere esistenzialista Dostoevskiy, Albert Camus descrive l’assurdità della condizione e della situazione dell’uomo moderno, la cui tragedia ha origine dalla coscienza lucida e fredda delle fatiche di ogni giorno, del macigno che incessantemente rotola. Ma in ciò risiede anche la sua felicità. L’autore scrive in proposito:
«La felicità e l’assurdo sono figli della stessa terra e sono inseparabili. L’errore starebbe nel dire che la felicità nasce per forza dalla scoperta assurda. Può anche succedere che il sentimento dell’assurdo nasca dalla felicità.»
A metà strada tra filosofia e letteratura e redatto da un filosofo di tradizione esistenzialista, il saggio intende dimostrare che la tensione fra l’uomo, il mondo e l’assurdo non sarà mai placata né superata e da questa visione senza speranza, generale e impersonale come precisa Corrado Rosso nella Prefazione, ne emerge una confessione: d’ispirazione “tertulliana”: «certum est quia impossibile est: credo quia absurdum».
In tal senso, l’uomo assurdo di Camus è un homus novus e trionfante, che si abbandona all’assurdo del vivere, all’indifferenza e al caos del reale. L’unica cosa dotata di un valore inestimabile e ineguagliabile è “la fiamma pura della vita”, che l’uomo deve impegnarsi ad alimentare.
© Antonietta Florio