Umberto Galimberti, Paesaggi dell’anima

«Scendere in profondità significa accedere alla radice da cui si dipartono sia la ragione sia la follia. E siccome la storia dell’anima razionale è stata edificata, in questa alternativa, dall’anima stessa dischiusa come storia della sua ragione e del suo senso, scendere alle radici significa giungere al fondamento non storico della storia, dove la follia che si incontra non è il contrario della ragione, quel negativo che la ragione ha sempre dialettizzato per affermare la sua positività, ma l’antecedente della ragione e della follia.» (U. Galimberti, Paesaggi dell’anima)

Parlare dell’anima significa inoltrarsi in un territorio tutt’altro che semplice da attraversare. Non si tratta solo della difficoltà (?) di definire l’anima mortale o immortale, bensì anche scontrarsi con chi non crede nell’esistenza dell’anima. Ad ogni modo, ciò non vale per i Greci. Il celebre dualismo anima-corpo è ravvisabile sin da Omero, passando per Platone e Aristotele, coinvolgendo persino Nietzsche e Heidegger, per poi oltrepassare i confini della filosofica, sfociando nella psicoanalisi, nella psicologia e nella cosiddetta epoca della tecnica.

In Paesaggi dell’anima, Umberto Galimberti compie un viaggio siffatto, sebbene l’approccio sia più di tipo psicologico che filosofico, sebbene non manchino citazioni tratte sia dagli uni che dagli altri. Protagonista è, comunque, l’anima che nel prevalere sulla materia e sul mondo corporeo, chiama in causa la contrapposizione ragione-follia. Laddove, secondo Platone, la ragione è uno «spazio storico», il punto d’equilibrio in cui le forze dell’anima compenetrano e si elidono vicendevolmente. Mentre la follia fa la sua apparizione negli interstizi lasciati vuoti dalla ratio.

Galimberti scrive nell’Introduzione:

«Dell’anima si era detto tutto: che era buona o cattiva, mortale o immortale, che poteva salvarsi o dannarsi, conoscere la verità o cadere nell’errore. Elevata a dimora di Dio, la si trovava nei discorsi degli amanti, a garanzia che il desiderio non era solo desiderio di corpi. Il suo compito era nobilitare tutto ciò che nell’uomo senz’anima sarebbe apparso poco nobile.»

Nel Settecento le cose mutano quasi radicalmente. L’anima, allo stesso modo del corpo, può ammalarsi e se questo è vero (nasce infatti la psichiatria come medicalizzazione dell’anima e la psicologia, che lavora su basi e ipotesi scientifiche), è altrettanto vero che il distinguo fra le due suddette entità, fra la carne e lo spirito, non è poi così netto come afferma gran parte della corrente filosofica greca.

Miti, metafore e simboli sono le modalità attraverso cui si parla dell’anima e la si porta a conoscenza. Eppure, l’operazione esegetica che queste richiedono non soltanto possono giungere a risultati erronei o parzialmente corretti, ma ancora più drasticamente, sono anticulturali. I miti, lungi dal (dover) essere interpretati, operano e, in tal senso, essi sono esperienza. Il loro fine non è significare, “ma indicare, mostrare, far apparire”.

Quanto alla metafora, è sufficiente ricorrere alla sua etimologia per comprenderne il significato e la funzione. “Metafora” deriva dal greco metaphorein, che letteralmente vuol dire “portare fuori”. Perciò, parlare metaforicamente significa far emergere, attraverso la parola, ciò che è nascosto.

Il simbolo, infine, è una predisposizione alla parola che sottende il rapporto tra essoterico ed esoterico, tra il detto e il non detto e dove l’inconscio non si configura più quale locus del rimosso, ma del ritorno al punto zero, all’origine. Mediante i simboli,

«l’anima visualizza la propria immagine e incontra la sua radice da cui non può separarsi, per cui ogni volta che parla del mondo, ogni volta che lo interpreta, narra la propria storia.»

Soffermandosi sul ruolo che la psichiatria e la psicologia hanno avuto e continuano ad avere nell’indagare l’anima, Galimberti osserva che il metodo scientifico emargina la filosofia e, d’accordo con Karl Jaspers, ne avverte la perniciosità. Essa opera tramite esperimenti e deduzioni, un procedimento algido e coadiuvato dalla ragione, che non lascia spazio alcuno ai sentimenti, alla sfera emotiva, né alimenta le illusioni.

Differente è l’analisi dell’anima in filosofia. Sin dai filosofi greci antichi, il concetto di anima ha a che vedere con un atteggiamento di raccoglimento interiore, per cui l’anima, concentrandosi in se stessa, da un lato fonda un soggetto individuale e dall’altro si relaziona con la verità, allontanandosi dalla fallacia dei sensi. Anche Sant’Agostino dirà che «La verità abita nell’interiorità dell’uomo».

Con Cartesio e poi con Husserl si verificherà una nuova svolta, ravvisabile nella contrapposizione tra l’interiorità e l’esteriorità, il regno platonico delle idee viene frammentato a vantaggio del regime della rappresentazione. Questo passaggio dal dentro al fuori porta con sé una conseguenza importante. L’uomo, da questo momento in poi, non cercherà più la sua propria identità dentro di sé, nella sua anima appunto, ma nel mondo esteriore e si conformerà ai modelli e alle regole che lo stabilizzano.

È questa l’epoca del conformismo, il periodo in cui l’Io viene annientato a vantaggio dei molti, in cui un comportamento controcorrente (che sia nell’ambito della moda, dello stile, etc…), un’attitudine che, insomma, ha in sé qualcosa di singolare perché non condivisa dalla società, vengono etichettati come fuori dalla norma e confinati nella regione della follia. Un mondo, insomma, dove l’anima, dedita alla soggettività e alla concentrazione interiore, non ha (o non sembra avere) più un suo posto.

© Antonietta Florio

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