«L’assassinio della creatività e la morte della speranza incombevano sui nostri pensieri e persino sui nostri dubbi. Nessuna illuminazione. Eravamo parcheggiati nello spazio inesistente di un punto vuoto, tra rassegnazione e speranza […]. I motivi per sorridere, in questo mondo macerato, erano scarsi davvero. Simone avrebbe sperato o si sarebbe rassegnato? […] Proprio i dubbi e l’acuta sensibilità che viene da questi sono le migliori doti di un maestro. La certezza acceca. Insegna tu a Simone l’arte di sognare.» (S. Iori, I semi dell’incanto. Racconti 1972-2020)

I semi dell’incanto. Racconti 1972-2020 di Stefano Iori è, come suggerisce il titolo stesso, una raccolta di racconti. I quali, in realtà, non sono mere favole, ma somigliano molto a un percorso intellettualmente ed emotivamente avventuroso che l’autore fa compiere al lettore. Un viaggio nel mondo dell’incanto, appunto, laddove l’incanto si erge sotto il segno della creatività, arma indispensabile in questo “cammino chiamato vita”, per parafrasare il titolo del romanzo di Banana Yoshimoto.
Come detto, si tratta di una serie di racconti, la cui caratteristica strutturale è la brevità e la fluidità; elementi che agevolano la lettura esplorativa del testo in questione. La maggior parte di essi sono narrati in prima persona, ma in tutti si avverte la presenza tangibile di Iori. L’atmosfera è impregnata di onirismo, sancendo la labilità del confine tra sogno e realtà, tra illusione e disillusione.
Anche quando il tema dominante è la disuguaglianza sociale, come in Dieci giorni di pioggia (1988), è percepibile il richiamo al tema della creatività o, per meglio dire, alla povertà estetica che ineluttabilmente finisce con l’impoverire lo spirito e, di conseguenza, rende impossibile leggere, esperire e comprendere il mondo, allontanandosi sempre più dal munus spinoziano «Non deridere, non compiangere né condannare, ma comprendere».
Ragazzi di vita è il racconto in cui l’autore affronta in modo massiccio l’imprescindibilità, e con essa la difficoltà, di essere completamente immersi nel mondo, di scontrarsi con la realtà. Tra i riferimenti a Marx e Pasolini, si staglia la malinconia dell’io narrante, la sua incertezza, coronata da un insopportabile senso di fallimento nella misura in cui i giorni si susseguono vuoti e sempre uguali, fino al desiderio impellente di voler cambiare vita:
«Mi ritrovavo a quarantatré anni con la voglia di cambiare lavoro, di vestirmi come un africano, di perdere sei o sette chili palestrandomi come un forsennato, di camminare solo di notte… […] Quale medicina ci vuole alla voglia di vivere per impedire di annegare?»
Da qui prende corpo una riflessione, che si ritroverà anche nei racconti successivi, sulla letizia e sulla libertà che scaturiscono da un vissuto intellettuale, dalla progressione della conoscenza, quasi in sintonia con il pensiero dell’Umanista fiorentino Marsilio Ficino. Sempre in Ragazzi di vita, il protagonista pensa:
«Mi piacerebbe diventare un intellettuale famoso, pensai; bello e pieno di voglia di vivere. Sarebbe stato un toccasana. Una botta di vita.»
Quasi nello stesso modo, ne L’anomalia (2017)
«Mi ero isolato nello studio e nella ricerca. Dalla tana in cui mi celavo, per intima propensione, ma anche per sfuggire al trionfo della banalità, osservavo il mondo.»
Anche il medico protagonista di Dialoghi del tramonto (2020) vive con l’idea di «lasciar perdere l’oggi e vivere esclusivamente nel mondo dei libri».
Connesse alla creatività, e condizione per (soprav)vivere nel mondo, sono tanto la speranza, quanto la forza del sogno. Una volta di più, dunque, l’imaginatio assolve a una funzione capitale nella quotidianità e intorno ad essa vi sono accampati il silenzio e la solitudine, una sorta di Lebensraum al di fuori del quale la fantasia non può agire:
«Perché agire, pensava, quando c’è tanto silenzio di cui bearsi. Le cose dell’universo era bello immaginarle, sognarle, costruirle nella grande fabbrica della mente.»
Considerando i suddetti fattori è particolarmente intenso il racconto intitolato Devora dagli occhi spenti (2019), laddove la cecità vera e propria è inversamente proporzionale ad una acutissima vista mentale e ad una fervida arte del sogno.
In definitiva, la morale di Stefano Iori è l’unicità e l’irripetibilità che contraddistinguono gli individui, i quali sono legati gli uni gli altri. Ma in questo groviglio di individualità anonime, di personalità multiple e caleidoscopiche,
«La meraviglia – scrive Iori nella Nota dell’autore – sta nell’individuare il minuscolo nocciolo di sé che collega, in modo fluido e sottile, tutte le nostre ere di passaggio, fisiche o interiori che siano, permettendo di riconoscerne l’origine.»
© Antonietta Florio