«La giustizia tardiva e “con passo lento”, per dirla con Euripide, quando si abbatte sui malvagi somiglia più a un fatto casuale che a un atto della provvidenza, dato che è oltre il tempo giusto e senza regole, oltre che in ritardo. Ne consegue che non vedo quale utilità ci sia in questi cosiddetti “mulini degli dèi, che macinano tardi”, così si dice, e rendono la giustizia debole e incapace di generare la paura di compiere il male.» (Plutarco, De sera numinis vindicta. Di come la giustizia divina appaia a volte tardiva)

Il De sera numinis vindicta è una breve opera dialogica (meno di 100 pagine) di Plutarco compresa nei Moralia, che accoglie testi di carattere religioso e affronta i temi del provvidenzialismo, della giustizia e, last but not least, l’immortalità dell’anima. È anzitutto necessario sottolineare la posizione fondamentale che Plutarco occupa in questo contesto.
L’Autore, in effetti, si colloca fra due poli: se da un lato osserva e segue la tradizione per ciò che concerne sia la struttura del trattato, sia la rielaborazione delle principali dottrine del tempo, dall’altro, l’adozione del metodo dialettico, pur conservando un carattere di indubbio sincretismo, evidenzia un’indiscussa originalità.
Plutarco si serve del dialogo per esporre chiaramente la sua tesi. In proposito, Giancarlo Giuliani, curatore del De sera numinis vindicta edito da Solfanelli nel 2020, scrive:
«Solo che la dialettica, per lui [Plutarco] va evidentemente intesa in senso letterale, come progressivo affermarsi della teoria in tutta la sua evidenza nel succedersi degli interventi dei vari interlocutori che, a loro volta, esprimono le principali posizioni del tempo sugli argomenti e sulle obiezioni di volta in volta affrontati.»
La discussione immaginaria avviene fra quattro personaggi: lo stesso Plutarco, Patroclo, Olimpico e Timone e prende le mosse dall’uscita di scena di Epicuro, dopo aver inveito contro la lentezza degli dèi nel punire i malvagi.
A turno, ognuno dei partecipanti alla conversazione espone la propria linea di pensiero, soffermandosi di volta in volta sui pro e i contro e sulle conseguenze che derivano dalla lentezza o, al contrario, dalla rapidità con cui la pena viene comminata. Il tutto sorretto dalla consapevolezza che “se è difficile comprendere le cose umane, ancora più complicato è la comprensione (o il tentativo di comprensione) delle res divinae” e dei criteri che le divinità seguono nell’infliggere un castigo.
La varietà d’opinioni, che a ben vedere risponde esaustivamente all’interrogativo “che cos’è la philosophia?”, ha un punto di convergenza: la cura dell’anima. Ciò viene enucleato da Plutarco nei seguenti termini:
«Che la cura dell’anima, che ha nome diritto e giustizia, sia la più grande di tutte le attività, oltre a moltissimi altri è testimoniato anche da Pindaro, che chiama “Artefice massimo” il dio che regge ed è arbitro di ogni cosa, in quanto è creatore del diritto, a cui spetta di valutare quando, come e fino a che punto ciascuno dei malvagi debba essere punito.»
Si ritrova qui la concezione dell’imitatio Dei, ovvero della necessità da parte dell’uomo di imitare e seguire il dio per diventare virtuoso, “l’uomo dabbene” di stampo ciceroniano. La tesi secondo la quale la punizione avviene a distanza di tempo e “produce sofferenza senza insegnamento” (Olimpico) viene confutata da Plutarco, persuaso che “la vendetta va servita a freddo”.
La lentezza con cui il dio punisce i malvagi ha la finalità di estirpare la brutalità, di far placare la rabbia prima di ricambiare la violenza con altrettanta tracotanza, «affinché si persegue la giustizia, imitandone la serenità e la cautela, in ordine e con equilibrio e avendo come consigliere il tempo che evita ripensamenti».
Ciò che cambia, anzi, ciò che si trasforma è il carattere dell’essere umano e a seguito di questo processo metamorfico l’anima, racchiusa nella prigione del corpo, può diventare migliore o peggiore, a seconda che segua le percezioni sensibili o il riverbero dell’Idea platonica intelligibile.
La divinità conosce gli uomini, i loro vizi e i loro difetti; conosce altresì le anime che hanno intrapreso una cattiva strada a causa delle “cattive compagnie” e quelle che hanno in se stesse il male come radice e, per ciò stesso, immutabile. Ed è per via di questa conoscenza che
«Dio […] non punisce tutti allo stesso modo, ma elimina e priva subito della vita ciò che non può essere curato, poiché convivere sempre con il male è assolutamente dannoso per gli altri, ma ancora più dannoso per se stessi.»
Il punto d’arrivo della conversazione si palesa a questo punto e coincide con la nozione dell’immortalità dell’anima, giacché la provvidenza divina e la sopravvivenza dell’anima sono interdipendenti:
«Uno solo è il discorso, e conferma la provvidenza del dio, e, insieme la sopravvivenza dell’anima, e non è possibile accettare l’una senza accettare anche l’altra. Se l’anima continua a esistere dopo la morte, è ancor più verosimile che le vengano assegnati anche premi e castighi.»
Avviandoci alla conclusione, non si può non fare riferimento ad altre due questioni. In primo luogo viene respinto il pensiero secondo cui “le colpe dei padri ricadono sui figli”, perché «se dio punisse i figli dei malvagi, sarebbe più ridicolo di un medico che dia medicine ai nipoti per guarire un nonno». Un paragone che avalla solo parzialmente il ragionamento sin qui portato avanti, dal momento che “i medicinali per la febbre hanno beneficio solo su colui che è malato”.
Ma se il fine della punizione dei malvagi (nei quali il germe della malvagità è innato) è di correggere gli altri, allo stesso modo
«se un figlio che non sembra essere malato, ma ha solo familiarità con quel morbo, qualora un medico o un familiare […] spingendolo a uno stile di vita morigerato […] lo sottoponga a farmaci atti a prevenire il male, […] scaccia e manda via il piccolo seme di una grave malattia, non permettendo che cresca.»
La seconda questione degna di essere citata è il mito escatologico di Tespesio, che occupa le ultime pagine del De sera numinis vindicta. In esso si racconta di Tespesio che, definendolo molto platealmente un antenato di Dante, compie un viaggio nell’aldilà dopo aver abbandonato la parte razionale del corpo.
Arideo, il nomen del malvagio prima della caduta, fa esperienza delle anime nell’oltretomba, dove il parente gli spiega come le anime vengono punite prima e purificate poi, riprendendo una volta di più l’annoso conflitto tra lo spirito e il corpo:
«La malvagità dell’anima, spinta dalle passioni, sconvolge il corpo e produce questi colori, così il termine della purificazione e del castigo si ha quando tali colori vengono cancellati del tutto, lasciando l’anima luminosa e con il suo colore naturale.»
© Antonietta Florio