Plutarco, De fortuna. La sorte

«La capacità di scegliere [potremmo dire la saggezza] non è oro, né fama, né ricchezza, né salute, né vigore, né bellezza. Che cosa è, dunque? L’essere in grado di far uso di tutte queste cose in modo adeguato, sì da rendere ciascuna di esse dolce, degna di lode e utile. Senza tale saggezza, al contrario, esse sono inutili, sterili, dannose e recano a chi le possiede danno e cattiva fama.» (Plutarco, De fortuna. La sorte)

La lettura del De fortuna di Plutarco implica un duplice impegno. Da un lato consente di conoscere il pensiero del filosofo circa la questione del destino dell’uomo, sia esso casuale o causale; dall’altro interroga e viaggia, inabissandosi, nelle zone interiori, alla ricerca di ciò che si è, scoprendo, magari, che la prima scelta compiuta nella vita ha svelato la vera natura del nostro essere.

La citazione in esergo di Cheremone («La sorte, non la capacità di scegliere, guida le vicende umane») è il punto di partenza della trattazione plutarchea, e l’Autore se ne serve come (s)oggetto di demolizione, come sostrato sul quale e per mezzo del quale costruire la sua esposizione teorica. Difatti, dice il filosofo di Cheronea, non è a causa della sorte che Paride, ad esempio, ha rapito Elena di Troia provocando la guerra fra due continenti.

Nelle cose e nelle azioni umane esistono senso della misura, della giustizia, dell’equilibrio: esiste la saggezza. Dunque, la capacità di scegliere, giacché

«Che cosa infatti può essere scoperto o appresso dagli uomini, se ogni cosa è condotta a effetto dal caso? […] Che cosa potremo aspettarci, eliminando la capacità di decidere come se ci cavassimo gli occhi e scegliendo per la nostra vita una guida cieca?»

La risposta di Plutarco rappresenta la chiave della questione. Non è il caso a regolare gli accadimenti umani, ma qualcos’altro di intrinseco alla natura umana, qualcosa – un dono prezioso – che distingue l’uomo dagli altri animali e lo rende a questi superiore: l’acutezza dell’ingegno, la facoltà di ragionare.  

«E allora, gli atti più grandi e più determinanti per la nostra felicità non richiedono la capacità di scegliere, non sono partecipi della ragione e della preveggenza?»

Senza il ragionamento, l’essere umano sarebbe passivo, inconsapevole e in balìa di forze ignote. Ancora, secondo Plutarco, avere buona sorte, ma non saper usare la ratio, è fonte di sciagura, perché, asserisce Giancarlo Giuliani nella Presentazione:

«si può disporre di ogni condizione favorevole, elemento facilitatore o incentivo ma, se non interviene il ragionamento, o meglio l’attitudine a ragionare, allora quello che ci aspetta non sarà di sicuro niente di buono. E se anche dovesse esserlo, si sarebbe nella condizione di coloro ai quali sia capitato per caso, senza capacità alcuna, di propiziarne il verificarsi.»

Di conseguenza, scrive ancora Giuliani,

«il destino altro non sarebbe che l’ordine razionale e il disegno complessivo alla luce del quale ogni evento troverebbe la sua ratio e giustificazione, come un tassello che andasse al proprio posto. Il valore dell’educazione consisterebbe dunque nel rafforzamento della facoltà razionale nei singoli […].»

Plutarco, in definitiva, non sposa la concezione della casualità né quella della causalità, poiché entrambe sono incompatibili con l’etica della responsabilità e della libertas.

Ma la capacità di «gestire quanto la sorte ha in serbo per noi, cooperando affinché ci veda protagonisti nella responsabilità e nella consapevolezza etica», e se è vero che ciò che siamo e che ciò che ci accade dipende da noi, non è una sorta di anticipazione, seppure evanescente, del pensiero esistenzialista di Sartre, secondo il quale la condanna dell’uomo è proprio la libertà di scegliere?

© Antonietta Florio

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