«Ciò che mi colpiva, soprattutto, era che non volevo fare assolutamente niente, pur desiderando ardentemente fare qualche cosa. Qualsiasi cosa volessi fare mi si presentava accoppiata come un fratello siamese al suo fratello, al suo contrario che, parimenti, non volevo fare. Dunque, io sentivo che non volevo vedere gente ma neppure rimanere solo; che non volevo restare in casa ma neppure uscire; che non volevo viaggiare ma neppure continuare a vivere a Roma; che non volevo dipingere ma neppure non dipingere; che non volevo stare sveglio ma neppure dormire; che non volevo fare l’amore ma neppure non farlo; e così via.» (A. Moravia, La noia)

Dopo Gli indifferenti, La noia è il romanzo in cui Alberto Moravia continua ad affrontare le tematiche del culto del denaro e della sessualità nell’universo borghese. Un mondo, questo, al quale egli stesso appartiene, ma dal quale ne resta fondamentalmente distante.
Infatti, ciò che risalta è il conflitto tra l’artista e la materia, tra l’individuo e la società, tra il soggetto e l’oggetto, come egli stesso asserisce in un’intervista tenuta quattro giorni prima della pubblicazione del romanzo. Cerchiamo, tuttavia, di capire cos’è propriamente la noia moraviana.
Innanzitutto è bene precisare che non è la noia di Pascal, la quale può essere surclassata dal divertissement, e non è quella di Leopardi, che scaturisce dal tedio e dall’angoscia dell’esistenza. No, per Moravia si tratta di qualcosa d’altro, qualcosa che Dino – il pittore protagonista del romanzo La noia – espone sin dalle prime pagine in tali termini:
«Ma bisogna intendersi su questa parola [noia]. Per molti la noia è il contrario del divertimento; e divertimento è distrazione, dimenticanza. Per me, invece, la noia non è il contrario del divertimento; potrei dire, anzi, addirittura, che per certi aspetti essa rassomiglia al divertimento in quanto, appunto, provoca distrazione e dimenticanza, sia pure di un genere molto particolare. La noia, per me, è propriamente una specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà.»
Noia e realtà vengono dunque ad essere i pilastri sui quali il romanzo, a sfondo psicologico si costruisce e intorno ai quali ruota. Riconoscendo primariamente che la noia ha a che fare con la perdita di contatto con una realtà, già di per sé vanificata, assurda, inconsistente e priva di senso, Dino, dall’aria perennemente meditabonda e, assuefatto dalle sue riflessioni, perviene alla conclusione che la suddetta noia, da cui germina l’alienazione, non è altro che l’incapacità di comunicazione e l’impossibilità di uscire o quantomeno trovare un’alternativa a questa impasse.
Le elucubrazioni del pittore si focalizzano dapprima sulla relazione con gli oggetti del mondo, per poi giungere, quindi, a consapevolezze di gran lunga più drastiche e drammatiche:
«Mi avveniva, in quegli anni, di cessare improvvisamente di giocare e di restare ore intere, immobile, come attonito, sopraffatto in realtà dal malessere che mi ispirava quello che ho chiamato l’avvizzimento degli oggetti, ossia dall’oscura consapevolezza che tra me e le cose non ci fosse alcun rapporto.»
I dialoghi con la madre e soprattutto con la diciassettenne Cecilia sono una concreta rappresentazione, l’effettivo passaggio dalla teoria alla pratica, dell’incomunicabilità, i cui indicia sono la brevitas dei discorsi e le risposte monosillabiche a quesiti che richiedono un discorso più espanso, ampio.
È soprattutto dalla madre e dal suo mondo facoltoso, a cui egli stesso ineluttabilmente appartiene e di cui non vorrebbe assolutamente farne parte, che il fantomatico pittore tenta di (man)tenere le distanze:
«Io non ero un povero che ero stato ricco, ero soltanto un ricco che fingeva, con se stesso e con gli altri, di essere stato povero.»
Siffatto tentativo è ravvisabile sia nella prima “fuitina” dalla villa in via Appia («Desideravo soltanto andarmene di casa, mettermi per conto mio»), sia successivamente, quando comincia una storia puramente sessuale con Cecilia. Deciderà di tornare nell’appartamento materno solo quando chiederà la sua mano.
Anche il rapporto con questa ragazza non è altro (almeno inizialmente) che un modo per trovare una via di fuga dalla noia. Eppure, la liaison avrà un déroulement imprevedibile e sino alla fine della narrazione, la psicologia del protagonista non solo sarà predominante in maniera massiccia, ma i suoi pensieri saranno così ingarbugliati, che il lettore avrà la sensazione di vivere la vita di Dino, di provare – quasi – i suoi stessi sentimenti, le sue medesime angosce e ossessioni.
Sì, perché ad un certo punto, quella storia diventa un’ossessione. Cecilia è inafferrabile, sfuggente e in quanto tale è l’emblema non tanto della difficoltà, quanto piuttosto dell’impossibilità di costruire un solido rapporto con la realtà, appunto sterile e improduttiva.
Cecilia non si (pre)occupa di nulla: né del padre malato, che abbandonerà in punto di morte partendo per un viaggio, né della madre che porta avanti a fatica un negozio di cosmetica. Un carattere inconsistente, privo di qualsiasi interesse, indifferente a tutto e a tutti e, perciò, incapace di spiegare, ad esempio, cos’è il piacere e/o perché le piace trascorrere del tempo con Dino. «Cecilia non è affezionata a nessuno» dice a un certo punto la madre.
La deuteragonista non subirà un’evoluzione, sarà uguale dall’inizio alla fine della storia. Chi subirà una sorta di metamorfosi, almeno a livello psichico è proprio Dino. Dapprima fa le veci dell’investigatore privato, controllando le sue uscite sia tramite ripetuti appostamenti, sia per mezzo delle telefonate, laddove il telefono è l’oggetto che più di ogni altro testimonia la mancanza di comunicazione, poi cerca di attirarla a sé offrendole del denaro dopo ogni amplesso.
Ciò nonostante la figura di Cecilia resta avvolta nel mistero, naviga imperterrita nel mare dell’enigma e del non-senso, non entusiasmandosi neppure dinanzi alla proposta di un matrimonio facoltoso, che non esita a declinare.
L’acme viene raggiunto quando Dino, infuriato per la partenza della ragazza, sale in macchina e ne perde volutamente il controllo. Nella solitudine della stanza ospedaliera, immerso nella contemplazione di un albero, egli si accorge che i sentimenti provati sono del tutto nuovi, anche se non mancano rassegnazione e disperazione:
«Tutto questo non mitigava il sentimento di disperazione che mi occupava l’animo; ma v’introduceva una certa quale serenità funebre e rassegnata. Ero stato davvero fino alle regioni oscure della morte; ne ero tornato; ormai, sia pure senza speranza, non mi restava che vivere. […] Non pensavo niente, mi domandavo soltanto quando e in che modo avevo riconosciuto la realtà dell’albero, ossia ne avevo riconosciuta l’esistenza come di un oggetto che era diverso da me, non aveva rapporti con me e tuttavia c’era e non poteva essere ignorato.»
L’amore che adesso sente dentro di sé non ha nulla di ossessivo né di noioso. È un amore nuovo, più maturo e consapevole, che non necessita di contatto fisico e che, per certi versi si avvicina all’idea della felicità:
«Sapevo per esperienza che felicità sia trovarsi con la persona che si ama e che ci ama, in un luogo bello e calmo, ero sicuro che Cecilia, pur nella sua maniera economica ed inespressiva, era felice, e mi stupivo di accorgermi che ne ero contento. Sì, ero contento che fosse felice, ma soprattutto ero contento che lei esistesse, laggiù nell’isola di Ponza, in una maniera che era la sua e che era diversa dalla mia e in contrasto con la mia, con un uomo che non ero io, lontana da me. […] non volevo più possederla bensì guardarla vivere, così com’era, cioè contemplarla, allo stesso modo che contemplavo l’albero attraverso i vetri della finestra.»
© Antonietta Florio
[…] ha l’impressione, in taluni frangenti, di ritrovarsi al cospetto de La noia, salvo però rilevare un fattore tutt’altro che trascurabile. La noia di Rebecca, infatti, […]
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