«La sofferenza, ovviamente, non è né piacere né godimento; ma non è nemmeno il loro opposto; non possiamo contraddistinguere più del dovuto i fenomeni che riguardano l’esistenza dal flusso della vita e valutarli in modo antitetico su un piano puramente razionale. La sofferenza deriva dal vissuto e lo fonda nella sua autenticità. […] La sofferenza è sofferenza e lo è in un’esistenza umana.» (E. Minkowski, La sofferenza umana. Aspetto patico dell’esistenza)

«Chi ha vissuto molto, ha sofferto molto». Questa frase balzachiana, tratta da Le Lys an la vallée è citata frequentemente da Eugène Minkowski – psichiatra e fenomenologo franco-russo di origine polacca – in occasione di una conferenza presso il Centro di neurologia di Bruxelles il 23 ottobre 1955, per festeggiare i venticinque anni d’insegnamento di Étienne de Greef.
Si trattava, dunque, di un evento particolarmente lieto e, come spesso accade nei momenti di gioia, quando improvvisamente un pensiero oscuro sconvolge ogni cosa, allo stesso modo, Minkowski pone l’accento sulla sofferenza.
La quale sofferenza non è intesa come dolore fisico, ma – come recita opportunamente il sottotitolo al testo in questione – come aspetto patico (non patologico!) dell’esistenza, ragion per cui non si tratta di masochismo, né tantomeno di pessimismo leopardiano:
«La sofferenza umana tocca nel profondo l’essere umano che la vive ed è uno dei fattori costitutivi dell’esistenza.»
Pertanto, non può essere ovviata, né guarita, ma soltanto alleviata. Affianco ad essa, quasi come fossero le sue ancelle, giacché anch’esse appartengono al “sentire patico”, ci sono la nostalgia e l’angoscia.
Quanto alla prima, essa è originata da una perdita irreparabile, da uno sguardo verso i “bei tempi andati”, che segnano una frattura netta rispetto al presente, duro e insoddisfacente ai limiti dell’insopportabilità.
Onde ne deriva una proiezione verso il futuro, la speranza in un avvenire migliore, dal momento che «penando, attraverso mille pene, andiamo avanti nella vita» e che penando «è possibile talvolta arrivare in cima». Che l’uomo sia il fabbro, l’artefice del suo proprio destino trova, una volta di più, la sua ragione d’essere. Nella Presentazione, a firma di Gianluca Valle, si legge:
«Senza il divenire, non esisterebbe il tempo come viene intuito dalla coscienza immediata. L’io si afferma nel mondo attraverso il suo slancio in quanto personalità vivente; e, col suo tendere in avanti, nel suo perpetuo contatto col mondo, per il semplice fatto di partecipare alla vita, realizza se stesso, in mondo essenziale e naturale».
Da qui una diramazione. Non soltanto la presa di coscienza che la sofferenza inerisce a ciò che è dinamico («Chi è vivo, è attivo»), bensì anche un’interrelazione con il concetto bergsoniano del tempo. Asserisce in proposito Minkowski:
«Questo è il duro presente da cui germina quel sospiro per i «cari tempi andati», con lo sguardo tuttavia rivolto al futuro, verso la dimensione più importante fra tutte quelle che caratterizzano il tempo vissuto, non già o non solo quale una semplice proiezione dei cari vecchi tempi, perché il futuro, nella sua potenza inalterabile, è sempre «giovane», non deriva mai dai «vecchi tempi» né, in un certo senso, da quei «cari tempi». […] Nostalgia di tempi migliori, carica di note molto più gravi del rimpianto […] legato esclusivamente al fatto che la vita futura potrebbe essere più facile […].»
Inoltre, il carattere creativo e dinamico della vita è espresso proprio dalla souffrance che è in accordo e in contrasto a un tempo tra l’interiorità e la realtà esterna.
Per quanto concerne invece l’angoscia, essa è «espressione di un’emotività eccessiva, di un’iperemotività». Detto altrimenti, l’angoscia è un disturbo dell’emotività. Ma prima di ciò, il psicopatologo rileva, en passant, la differenziazione, non poi così netta, tra l’angoscia e l’ansia, ammettendo con Henry Ey che «l’ansia, o se vogliamo, l’angoscia è quello stato affettivo che incontriamo a ogni svolta dell’esistenza e in ogni forma della condizione umana».
© Antonietta Florio
[…] Detto altrimenti, tutte le opere precedenti sono un lungo iter di ricerca e di lavoro di sperimentazione che confluirà nei Dialoghi. Alla dicotomia uomo-scrittore fa da contraltare il dualismo bene-male, umano-bestiale, razionale-irrazionale, ordine-caos, che per lo scrittore torinese rappresentano, anzi costituiscono la natura della vita. Minkowski, per estensione, parlerebbe di «aspetto patico dell’esistenza». […]
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[…] mòniti proferiti con un linguaggio semplice, ma “nudo e crudo”, così come nudo e crudo è il dolore che ogni uomo si porta dentro, che seppure cancella il sorriso, non deve annullare l’amore per la vita stessa, che vale la pena […]
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[…] umano che la vive ed è uno dei fattori costitutivi dell’esistenza» scrive Eugène Minkowski in La sofferenza umana. Aspetto patico dell’esistenza. Una frase che trova conferma nel pensiero di Paul Ricoeur, il quale, interrogandosi sul soffrire, […]
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[…] Si rileva sì la forte componente autobiografica, ma chi più, chi meno, almeno una volta, tornando nella propria terra, nel proprio paese ha avvertito quasi un senso di disagio, di non-appartenenza appunto. È tornato carico di sentimenti positivi, credendo di trovare tutto com’era, per poi ingoiare l’amara pillola del cambiamento interiore ed esteriore a un tempo. E così, tra un conflitto e l’altro, sbrogliando continuamente i “pantani della nostra anima”, «penando, attraverso mille pene, andiamo avanti». […]
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