Nicola Lombardi, I ragni zingari

«Sì, sì, sono loro, i ragni zingari… La casa di Berto ne era piena, ne era stipata. Michele non li aveva davvero visti, però era così che funzionava. Non li vedevi, però sapevi che c’erano, sapevi che ti stavano girando attorno, scrutandoti con i loro occhietti folli, sfuggendo al tuo sguardo ma lasciandoti sulla retina i loro spettri filiformi… Ma da dove uscivano, se l’uomo non teneva specchi in casa? Occorrono specchi, rimuginò Michele, mentre una polla di sangue e fango ribolliva attorno alle sue gambe.» (N. Lombardi, I ragni zingari)

L’8 settembre 1943, l’Italia firma la resa incondizionata agli Alleati. Il 9 settembre, quando ormai sembra tutto finito, ma l’aria continua ad essere irrespirabile, Michele, soldato d’altri tempi, sale sul treno per tornare a casa. Un viaggio di ritorno segnato dal dolore, dall’angoscia, da un vuoto incolmabile, dall’incertezza, dal timore del futuro, i cui contorni sono ben lungi dall’essere chiari e definiti: «Che vita mi attende, da oggi in poi?».

Il tutto accompagnato da un senso di estraneità, di perdita, di disorientamento:

«Avvertì il capogiro pretendere la sua attenzione, e nel tentativo di focalizzare almeno un pensiero sensato fu colto da un senso di ineluttabile perdita, il sentimento di chi non ritrovi più nulla di familiare attorno a sé, neppure se stesso.»

Questo lo sfondo de I ragni zingari di Nicola Lombardi, autore legato al movimento letterario romano Neo Noir. Realtà e fantasia, storia e introspezione psicologica riempiono le pagine di questo breve romanzo, che catapulta in un mondo di specchi, un mondo irraggiungibile, il mondo di Michele – appunto – e della sua famiglia che, in quelle stesse ore sta vivendo un altro dramma: la scomparsa di Marco.

Questo evento stravolge ancor di più l’equilibrio di Michele, il quale

«Aveva vissuto per mesi accanto alla morte, fianco a fianco, e ora che era riuscito a fuggire e a trovare riparo nel posto più sicuro e amato della terra si accorgeva che l’orrore lo aveva solamente preceduto, per accoglierlo.»

Alla spiegazione razionale di Adele, secondo la quale Marco sia semplicemente scappato di casa per soddisfare la sua voglia di curiosità e conoscenza, si contrappone la storia dei ragni zingari dello zio Berto:

«[I ragni] erano infatti una presenza nefasta, poiché uscivano e gironzolavano per le case solo all’approssimarsi di qualche sventura. Una malattia, per esempio, o un decesso. Per questo bisognava temerli.»

Sono ragni simili ai comuni scarafaggi, ma nel contempo sconfinano nell’irrealtà. Escono dagli specchi e quando si percepisce la loro presenza, quando si intravedono sulla parete, ecco che poi, strizzando gli occhi, scompaiono.

Si contrappongono qui due mondi, ognuno dei quali dotato di colori e significati differenti. Mondi la cui descrizione dettagliata, irrobustisce la narrazione senza appesantirla, e tiene il lettore con il fiato sospeso. A tratti viene trascinato nel vortice del turbamento di Michele che, speranzoso di trovare finalmente pace e riposo al capezzale della madre e convinto di poter riagguantare il bandolo della propria vita, scopre invece che la sua odissea non è ancora finita:

«Quanto avrebbe voluto chiudere gli occhi, farsi ingoiare dal buio, spegnersi come la fiamma di una candela.»

Non solo, ma come il titolo, I ragni zingari, è palindromo, come i ragni fuoriescono dallo specchio, anche Michele ha l’impressione di vivere dall’altra parte dello specchio, comprendendo che

«non esistono tempi e mondi sbagliati, ma solo anime smarrite, imprigionate in uno specchio, costrette a cercare a tentoni il loro luminescente doppio, per raggiungerlo, per tornare a essere libere.»

Ciò che resta ancora da capire, ed è forse la cosa più importante, è se c’è ancora differenza tra il sogno e la realtà, da quale parte dello specchio si svolge la vita vera. Domande e riflessioni che, con ritmo incalzante e frenetico, sull’altalena di sensazioni e impressioni contrastanti, sul doppio filo di ciò che è e di ciò che non è (ma potrebbe anche essere), conducono verso un finale inaspettato, tale da rendere il romanzo di Nicola Lombardi degno del genere horror.

© Antonietta Florio

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