«Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di piú che un comune giro di stagione.» (C. Pavese, La luna e i falò)

Pubblicato nell’aprile 1950, poco prima della tragica morte, La luna e i falò è l’ultimo romanzo di Cesare Pavese. Da un punto di vista della struttura, ciò che salta agli occhi è la brevitas dei trentadue capitoli di cui si compone il testo narrativo, la quale è connessa direttamente ai nuclei tematici che lo attraversano e lo sostanziano.
Protagonista è Anguilla che, dopo un lungo periodo di assenza, torna nelle Langhe, nel suo paese, scoprendo che tutto è come prima, ma in un panorama profondamente e drammaticamente cambiato:
«Era strano come tutto fosse cambiato eppure uguale. Nemmeno una vite era rimasta delle vecchie, nemmeno una bestia; adesso i prati erano stoppie e le stoppie filari, la gente era passata, cresciuta, morta; le radici franate, travolte in Belbo – eppure a guardarsi intorno, il grosso fianco di Gaminella, le stradette lontane sulle colline del Salto, le aie, i pozzi, le voci, le zappe, tutto era sempre uguale, tutto aveva quell’odore, quel gusto, quel colore d’allora.»
Pavese affronta, dunque, il tema della memoria e della ricerca della propria identità, nel tentativo di comprendere il mondo circostante:
«Uno vuol fare, esser qualcosa, decidersi. Non ti rassegni a far la vita di prima. Andando sembra più facile. Si sentono tanti discorsi. A quell’età una piazza come questa sembra il mondo. Uno crede che il mondo sia così…»
Sullo sfondo l’amicizia con Nuto e le ripercussioni che la lotta partigiana e la dittatura fascista ha sui singoli, in modo particolare sui giovani che, aspiranti alla libertà e a diventare qualcuno, si sentono oppressi e impossibilitati nel vivere la vita con la leggerezza e la spensieratezza tipiche dei giovani.
Nuto è, sotto questo profilo, una figura particolarmente interessante, opposta a quella di Anguilla. Difatti, l’uno resta nel proprio paese, l’altro decide di abbandonarlo per andare in America e conoscere la vita. Il romanzo diventa allora il resoconto di un viaggio, segnato dalla speranza, e di un ritorno, tanto amaro e sconfortante quanto più Anguilla si rende conto che se lui ricorda i suoi compaesani, loro non sanno più chi sia lui.
Non solo amicizia, però. C’è anche l’amore, sia quello tra genitori e figli (adottivi o di sangue che siano), sia tra uomo e donna. E Anguilla, sotto questo profilo, non è particolarmente, o del tutto, soddisfatto. Nel primo caso perché scopre di essere un bastardo; nel secondo, perché il desiderio di sposare una donna e formare una famiglia resta tale.
Eppure, ciò che bisogna propriamente sottolineare e che rappresenta l’elemento sul quale vale la pena soffermarsi è la funzione mitopoietica del racconto. La coppia oppositiva realtà-simbolo è il polo intorno a cui gravita tutto il romanzo, e lo si può scorgere sin dal titolo.
La luna e i falò non hanno più a che fare con i riti ancestrali, con le credenze e le superstizioni popolari. Il fuoco uccide, ammazza delle vite. Sparisce, dunque, l’aura mitica e l’irrazionale è smitizzato dal razionale. Illuminante è la seguente conversazione tra Anguilla e Nuto:
«– La luna, – disse Nuto, – bisogna crederci per forza. Prova a tagliare a luna piena un pino, te lo mangiano i vermi. Una tina la devi lavare quando la luna è giovane. Perfino gli innesti, se non si fanno ai primi giorni della luna, non attaccano. […] superstizione è soltanto quella che fa del male, e se uno adoperasse la luna e i falò per derubare i contadini e tenerli all’oscuro, allora sarebbe lui l’ignorante e bisognerebbe fucilarlo in piazza.»
Ancora una volta, emerge la differenza tra i due: se Nuto crede ancora nelle superstizioni, per mezzo delle quali vuole capire il mondo e magari cambiarlo, Anguilla sa che «tutto sommato soltanto le stagioni contano, e le stagioni sono quelle che ti hanno fatto le ossa, che hai mangiato quand’eri ragazzo».
Ciò conferma la citazione che Pavese pone in apertura al romanzo, tratta da Re Lear di Shakespeare “Reapness is all” (la maturità è tutto). E qui si concentra non solo il nòcciolo della poetica pavesiana, bensì anche il significato che egli dà all’esistenza: maturare vuol dire crescere e crescere vuol dire andarsene, invecchiare e poi tornare per vedere cose già viste, ricordare cose apparentemente rimosse.
Tornare per capire chi si è stati e cosa si è diventati:
«Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. Ma non è facile starci tranquillo.»
Anche se tornando ci si sente alienati, estraniati («sapevo di non essere nessuno»), come se l’appartenenza a quella parte di mondo sia stata un sogno, scoprendosi “apolidi dell’esistenza”.
Non tanto la storia, non tanto i personaggi, la cui costruzione e interpretazione è puramente psicologica, quanto piuttosto il difficile “mestiere di vivere” (a breve è alla base de La luna e i falò.
Si rileva sì la forte componente autobiografica, ma chi più, chi meno, almeno una volta, tornando nella propria terra, nel proprio paese ha avvertito quasi un senso di disagio, di non-appartenenza appunto. È tornato carico di sentimenti positivi, credendo di trovare tutto com’era, per poi ingoiare l’amara pillola del cambiamento interiore ed esteriore a un tempo. E così, tra un conflitto e l’altro, sbrogliando continuamente i “pantani della nostra anima”, «penando, attraverso mille pene, andiamo avanti».
© Antonietta Florio
[…] qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti», scriveva Cesare Pavese ne La luna e i falò (1950). Il bisogno di andarsene, di conoscere nuovi popoli, nuove culture e, persino (o forse […]
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[…] da essa. Vicini a noi, ma nel contempo così tragicamente lontani. L’Autore pone l’accento sull’esilio, quale condizione prettamente pavesiana del sentirsi straniero ed estraneo, apolidi e …, laddove «“appartenere” significa portarsi dentro un humus che ci lega al nostro sapere di […]
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[…] torniamo a quello che può considerarsi il termine chiave del diario: ossessione. L’autore de La luna e i falò è ossessionato dalla volontà di lavorare, mai vorrebbe deporre la penna, mai vorrebbe allontanarsi […]
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