L’esistenzialismo di Jean-Paul Sartre

«[…] la libertà è scelta del suo essere, ma non fondamento del suo essere. […] La realtà umana può scegliersi come vuole, ma non può scegliersi, non può neppure rifiutare di essere: il suicidio, infatti, è scelta e affermazione: di essere. Mediante questo essere che le è dato, essa partecipa alla contingenza universale dell’essere e, con ciò stesso, a ciò che noi chiamiamo assurdità. La scelta è assurda, non perché è senza ragione, ma perché non c’è stata la possibilità di scegliere.» (J.-P. Sartre, L’essere e il nulla)

Jean-Paul Sartre è l’esponente più importante dell’esistenzialismo francese e, differentemente da Kierkegaard, sostiene che i personali problemi esistenziali non hanno una via d’uscita nella fede o nelle trascendenza, bensì nell’individuo stesso. In tal senso, «l’esistenzialismo è un umanismo», formula che – peraltro – dà il titolo all’omonimo saggio pubblicato nel 1946.

L’essere e il nulla (1943) non solo è le chef d’oeuvre di Sartre, ma è assurto a punto di riferimento dal vastissimo movimento esistenzialista che, nel dopoguerra, ha dominato massicciamente la cultura francese in particolare ed europea in generale.

Il punto di partenza di Sartre

Influenzato dalle analisi husserliane, Jean-Paul Sartre costruisce il suo proprio pensiero a partire dalla concezione della coscienza come esistenza e, in quanto tale, come libertà. Siffatto concetto, però, assume nell’ottica sartriana una connotazione negativa, osservando che l’uomo essendo obbligato a esistere non è libero di scegliere, per cui la liberté non è che la consapevolezza di un naufragio che non può essere evitato.

Ciò genera angoscia, tanto più ineludibile quanto più egli è consapevole della sua responsabilità di essere al mondo:

«L’uomo è un essere che si trova in una situazione del tutto particolare: è a partire da lui e dalla sua possibilità di trascendenza che le cose ottengono un senso e la sua stessa esistenza è una continua scelta, un’invenzione di sé. Egli è pienamente responsabile della propria vita e della realtà che lo circonda; una responsabilità tremenda che lo condiziona a essere votato alla frustrazione e alla disperazione.»

Soffermandoci un attimo sulla coscienza sartriana, del quale concetto egli ne discute ne L’essere e il nulla, il filosofo esistenzialista parte dal presupposto che l’uomo è coscienza di “qualcosa” di esterno a se stesso e la coscienza non può essere posta da nulla. Onde ne deriva, più semplicemente, che tra me e la mia coscienza vi è una differenza sostanziale: le cose sono oggetti in sé, ricevono senso solo grazie alla coscienza umana; la coscienza è l’essere per sé, fonte di significato delle cose e auto-trasparente a se stessa.

Inoltre, poiché ha la proprietà della trascendenza e, dunque, ha la tendenza a negare ogni limitazione e determinazione, la coscienza è libertà, essendo quest’ultima il superamento dell’esistente nell’elaborazione di progetti sempre nuovi. Da ciò ne deriva che la coscienza è il nulla: «è il nulla in quanto possibilità di nullificare i dati di fatto e progettare sempre nuove situazioni».

La condizione dell’uomo

Nella formula «l’esistenzialismo è un umanismo» si concentra il pensiero sartriano circa la condizione dell’uomo, contrassegnata da angoscia e dolore, quanto più l’essere umano ha possibilità di scelta. Non solo, ma gli uomini esperiscono drammaticamente che la vita non ha senso a priori, dal momento che i valori ad essa intrinseci e i significati dei comportamenti individuali non sono altro che il prodotto di invenzioni, di fabbricazioni della mente, di costruzioni. Ciò che Nietzsche, prima di Sartre, aveva racchiuso nella frase «Dio è morto».

Se, dunque, spetta agli uomini conferire un senso alla loro vita, allora ognuno di essi è responsabile di sé e della sua propria condotta. In tal senso, il filosofo esistenzialista può arguire che l’esistenza, carattere specifico dell’essere uomo, precede l’essenza e che solo al singolo individuo spetta la scelta di essere ciò che è e ciò che vuole diventare. «In breve, l’uomo non è altro che la somma dei suoi atti e delle sue scelte». È per mezzo di queste che l’uomo si costruisce:

«L’uomo è condannato a esistere ed esistere significa scegliere. La scelta è fonte di disperazione, perché nella scelta viene coinvolto l’uomo in modo individuale e personale. […] è la scelta il fondamento di ciò che l’uomo e il mondo possono essere.»

L’angoscia di cui parla Sartre scaturisce proprio da questa libertà di scelta. La quale libertà non ha nulla di autonomo e indipendente, essendo che la scelta di vivere è necessità e responsabilità dell’individuo di essere nel mondo. Un tale assioma potrebbe sembrare paradossale, ma indagando più a fondo, si scorge una linearità intrinseca:

«La possibilità di assumersi la responsabilità dei fatti della propria esistenza coincide con la libertà dell’uomo di fronte alla datità delle cose e degli eventi, ma, nel contempo, è per lui la condanna più pesante e insopportabile.»

Ciò che implica fatica, disperazione, mescolati a un sentimento di estraneità rispetto all’ambiente circostante, a tal punto che anche le cose più familiari appaiono sconosciute.

Questa linea di pensiero si scorge chiaramente ne La nausea, romanzo del 1938, in cui il protagonista Roquentin – nel quale, almeno una volta nella vita, ognuno può identificarsi – è inquieto e nauseato, appunto, nel sentirsi di troppo con e per gli altri, dalla convinzione granitica di essere nulla, non avere alcun fondamento, di vivere in un mondo privo di significato, di stabilità e precisi criteri di orientamento.

Il rapporto con gli altri

Sentirsi di troppo per gli altri equivale ad avvertirli come “oggetti”, estranei alla propria coscienza, in un circuito vizioso che non ammette vie d’uscita. Oggetti di cui, dunque, se ne può far uso, laddove si potrebbe ravvisare – parafrasando l’oratore e retore latino Marco Tullio Cicerone, il conflitto fra l’utile e il dannoso, fra ciò che è giusto fare.

Da questo conflitto tra me e gli altri scaturisce il tema sartriano dello sguardo, in cui il soggetto diventa oggetto dell’altro e che differisce enormemente dal “vedere”. Lo sguardo, infatti, «è innanzitutto un intermediario che rimanda a me stesso». Lo sguardo scopre la “nudità” del mio essere, suscita vulnerabilità e vergogna, ovvero «il sentimento di essere sì ciò che sono, ma per un altro». Perciò, «quando un altro mi guarda, io non posso sottrarmi, ma devo sottostare e mi sento ferito nel mio essere».

© Antonietta Florio

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