«Mi fa impazzire il fatto che ti aggrappi di nuovo alla logica, che è senz’altro utile nella vita: ma noi non siamo nella vita, Myriam! È il segreto che ti sussurro all’orecchio già da un mese: noi due non siamo vivi! Voglio dire, non in un luogo in cui vigono le leggi ordinarie che regolano i rapporti tra le persone, tantomeno i rapporti tra uomo e donna. Dove siamo, allora? Non m’interessa sapere dove, perché dargli un nome? Sarebbero comunque nomi “loro”, nomi tradotti, e con te voglio una costituzione diversa di cui saremo noi a fissare le leggi. Parleremo una nostra lingua e racconteremo le nostre storie, e ci crederemo con tutte le nostre forze, perché in mancanza di un luogo privato come questo – dove quello in cui crediamo si realizzerà, anche se solo per iscritto – la nostra vita non sarà tale; o peggio ancora: la nostra vita sarà solo una vita… Sei d’accordo?» (David Grossman, Che tu sia per me il coltello)

Diviso in due parti, Che tu sia per me il coltello è un romanzo epistolare che David Grossman costruisce prendendo probabilmente spunto dalla corrispondenza tra Franz Kafka e la sua adorata Milena. Prova ne sia il titolo stesso che ricalca la seguente frase che l’autore ebreo dedica alla donna amata: «Amore è il fatto che tu sia per me il coltello con cui frugo dentro me stesso». Sin dalle prime pagine, infatti, si comprende il motivo intorno al quale ruoterà l’intera narrazione:
«Non spaventarti, non voglio incontrarti e interferire nella tua vita. Vorrei piuttosto che tu accettassi di ricevere delle lettere da me. Insomma, vorrei poterti raccontare di me (ogni tanto) scrivendo.»
Non è tanto l’assurdità della situazione relazionale che si instaura tra Yair e Miriam, quanto piuttosto il desiderio, quasi una necessità di due perfetti sconosciuti di condividere i loro segreti più intimi, pensieri che non hanno il coraggio di confidare a nessuno, talvolta nemmeno a se stessi, e che diverranno un excursus tramite il quale scoprirsi in modo lento e doloroso:
«Come vorrei pensare a noi come a due persone che si sono fatte un’iniezione di verità per dirla, finalmente, la verità. Sarei felice di poter dire a me stesso: “Con lei ho stillato verità”. Sì, è questo quello che voglio. Voglio che tu sia per me il coltello, e anch’io lo sarò per te, prometto.»
Più avanti Yair aggiunge:
«Innanzitutto devi capire che non ho nessun desiderio di raccontare le mie storie ad altre persone. Voglio scrivere solo a te, solo in tuo onore si è risvegliato in me questo impulso. Così, senza preavviso, nel bel mezzo della vita, perché prima di vederti non avevo mai conosciuto questo tipo di desiderio.»
Difatti è Yair il motore primo di una lunga serie di lettere dolci e appassionanti, travolgenti e stravolgenti; Yair è colui che ha l’idea di avviare una relazione basata esclusivamente sulle parole. Per cui emozioni, sensazioni, impressioni sono irretite nel linguaggio, laddove Martin Heidegger, non a torto, asserisce che non è l’uomo a imprigionare il linguaggio, ma è il meccanismo linguistico a fare l’uomo prigioniero. Più precisamente, nella Lettera sull’«umanismo» il filosofo annota:
«L’uomo non ha il linguaggio, semmai è questo che piuttosto dispone dell’uomo; l’uomo vi partecipa nella misura in cui ascolta ciò che nel linguaggio gli viene detto e vi cor-risponde con la parola.»
Segue le tracce heideggeriane, Umberto Galimberti, che così scrive nel saggio Heidegger e il nuovo inizio. Il pensiero al tramonto dell’Occidente:
«il linguaggio non è qualcosa che è in potere dell’uomo, al contrario è l’uomo che è in potere del linguaggio, in quanto può pensare solo ciò che nell’ambito di un certo linguaggio rientra.»
Parole che non sono mere costruzioni discorsive, ma costituiscono la componente primaria, essenziale, anzi l’unica, di una relazione tanto assurda (perché fuori dall’ordinario), quanto autentica, finalizzata cioè a svelare la verità dell’uno come dell’altra. È in tal senso che Yair scrive: «La nostra non è una conversazione da salotto. Con te ritrarsi è un delitto».
Ciò che conta per entrambi è sentire la presenza l’uno dell’altra: «ti sono di nuovo vicino a-una-distanza-da-urlo». O, come scrive Paolo Giordano ne La solitudine dei numeri primi: “Vicini, ma mai abbastanza per toccarsi davvero”. Comincia così un viaggio immaginario sostenuto da un compagno appartenente al mondo reale, il quale compagno non è una semplice parentesi, giacché
«se ti senti tra parentesi, permettimi allora di infilarmici dentro, e che tutto il mondo ne rimanga fuori, che sia solo l’esponente al di fuori della parentesi e ci moltiplichi al suo interno.»
È il viaggio di due anime che, nonostante siano sconosciute, “svolazzano liberamente l’una nell’altra” e si aggrappano l’una all’altra, traendo forza l’una dall’altra. E questo pur nella consapevolezza che tale unione non sarà mai concreta, tangibile, da poter essere vissuta anche col corpo.
Eppure le contraddizioni non mancano (del resto non potrebbe essere diversamente!). Se da un lato l’ipotesi di un incontro vero metterebbe a repentaglio la purezza della conoscenza («[…] se ci fossimo incontrati di persona, non saremmo riusciti a conoscerci nel modo in cui ci conosciamo»), dall’altro il non incontrarsi è all’origine di una cupa tristezza:
«Ieri, mentre scrivevo, ho di nuovo pensato quanto sono strane le lettere. Quando tu ricevi una mia lettera io sono già altrove. Quando io ne leggo una tua, mi trovo di fatto in un tuo momento passato. Sono con te in un tempo in cui ormai non sei più. Il risultato è che ognuno di noi vive momenti da cui l’altro è già uscito…»
Ciononostante, tanto Yair quanto Myriam corrono un rischio altissimo: ambedue, infatti, si espongono alla sofferenza, tutti e due finiscono col mostrare il loro lato più debole e vulnerabile, «che anche uno sconosciuto può vedere e colpire».
Qui si palesa il punto d’incontro tra la realtà del mondo e la realtà della mente: l’enorme fonte di possibilità che potrebbero realizzarsi e che mai si realizzeranno e altre che, al contrario, hanno un’alta probabilità di realizzazione. Difatti,
«Non bisogna però dimenticare che anche la “realtà” è, in fin dei conti, solo una coincidenza momentanea su un globo enorme, brulicante di possibilità che non si realizzeranno mai. Ognuna di loro potrebbe raccontarci una storia completamente diversa di noi, interpretarci in modo differente.»
Nella seconda parte del romanzo è Myriam a parlare per mezzo delle lettere, ad emergere. Profondamente addolorata, ma sempre pronta a risollevarsi, è l’unica persona che può guidare Yair nella sua rivoluzione interiore, nel fargli scoprire qualcosa di sé che lui stesso non conosce, di essere per lui madre e sorella.
Consapevole che nella realtà di Yair non c’è posto per lei, non riesce comunque a sottrarsi da quella passione che si scatena con le parole, che li avvicina pur essendo distanti e sfuggenti. È quella la maniera grazie alla quale le ferite di entrambi si attenuano, è in quel luogo al di fuori dell’ordinario, là dove le critiche della società non possono arrivare, né di conseguenza intaccare le emozioni che provano, che Yair e Myriam possono aspirare a un’armonia altrimenti impossibile da raggiungere.
Per entrambi la scrittura è il modus con cui attraversare il dolore, mitigarlo e mitigare una solitudine che giorno dopo giorno diventa sempre più insopportabile. Entrambi relegati in un angolo del mondo («Vivo soprattutto in quello che non ho»), nascosti da tutto e da tutti, gridano il loro dolore, fino a quando la realtà supera l’immaginazione e prima l’uno poi l’altra non possono far altro che continuare a navigare nella vita vera.
È palpabile la differenza tra i due e i limiti di ciascuno. Se Yair fin dall’inizio chiarisce che la natura della relazione deve costruirsi e andare avanti solo con le parole messe nere su bianco, Myriam ne resta sì colpita, ma al contempo nutre la speranza che le suddette parole possano tramutarsi in fatti.
Eppure è la corrispondenza a creare un’intimità assoluta, a conferire un potere quasi sacrale all’immaginazione, la facoltà che salva la vita, che migliora – anche se solo per brevi attimi – giorni tristi e spenti. Ancora, è grazie alla corrispondenza che l’uno tocca e penetra nell’anima nell’altra, laddove il richiamo all’erotismo, alla sensualità e alla passionalità può superare la fisicità e giungere a una dimensione più profonda e spirituale, pura e genuina.
Il conflitto teoretico anima-corpo, materialità-spiritualità sembra, dunque, non destinata ad estinguersi.
© Antonietta Florio