Elizabeth von Arnim, Un incantevole aprile

«Se il tempo era bello, il mese di aprile a San Salvatore era il migliore dell’anno. Maggio bruciava e disseccava; marzo era agitato e poteva anche essere freddo e rigido nella sua luminosità; aprile, invece, arrivava dolcemente come una benedizione, e se il tempo era favorevole nessuno riusciva a rimanere indifferente. Era impossibile non sentire che ti cambiava e ti toccava nel profondo.» (E. von Arnim, Un incantevole aprile)

«Bellezza è verità, verità è bellezza» scrive John Keats nel componimento poetico Ode su un’urna greca (1819). Ed entrambe, la bellezza e la verità, sotto l’egida dell’amore, scorrono e si amalgamano lentamente e dolcemente nel romanzo di Elizabeth von Arnim, Un incantevole aprile, «un romanzo molto generoso, perciò il lettore lo vive come un dono».

Ambientato nella Londra degli anni Venti, protagoniste sono quattro donne che, oppresse dal tedio di piovose giornate marzaiole e accomunate – due di esse – da un matrimonio insoddisfacente, decidono di concedersi un periodo di vacanza in Italia, nel castello medievale di San Salvatore, una cittadina ligure, attratte da un annuncio sul giornale:

«Stava [Miss Arbuthnot] proprio leggendo del castello medievale e dei glicini, anzi, aveva letto l’annuncio dieci minuti prima e da allora si era persa nei sogni, nella luce, nei colori e nei profumi, nel mare che lambisce lieve piccoli scogli scaldati dal sole…»

La vacanza è intesa sì come sospensione dalla routine quotidiana sterile e scevra di emozioni, di una vita matrimoniale senza l’élan vitale di bergsoniana memoria, ma sarà soprattutto l’occasione di uno scandaglio dentro se stesse. Dice Mrs Wilkins:

«Insomma, non sarebbe mica da egoisti andarsene essere felici per un po’, e poi tornare persone migliori, no? Tutti hanno bisogno di una vacanza dopo un po’. »

Uno spirito sognatore e piuttosto impulsivo, quello di Mrs Wilkins, che mal si accorda con lo spietato e crudo realismo dell’amica, per la quale «Il paradiso è dentro di noi», «è lì se lo vogliamo, se ci applichiamo». Siffatta condotta granitica, però, viene sminuzzata a poco a poco e, in tal senso, sia il luogo della vacanza che il periodo dell’anno si riveleranno adatti per un’analisi introspettiva senza precedenti.

Un viaggio nel viaggio, dunque. La geografia dei sentimenti si sovrappone alla geografia degli spazi, l’una contamina l’altra in un intreccio strabiliante e avvincente. Non solo, è anche il viaggio del lettore che entrerà in sintonia con queste donne, l’empatia farà capolino, e da ognuna ne prenderà qualcosa – che sia un crollo emotivo o una speranza, un’emozione tale da suscitare un conforto o un’amara rassegnazione – e lo farà suo.

Mrs Arbuthnot, all’inizio perplessa e quasi riluttante all’idea di concretizzare il viaggio in Italia, si lascia ammaliare dall’entusiasmo di Mrs Wilkins. Due vite – le loro – che sono, almeno all’apparenza, l’una all’estremo opposto dell’altra. A ben vedere, però, ambedue sono pervase da un senso di malinconia sconfinata, di sfrenato romanticismo che non ostentano e che addirittura credono di aver gettato nell’oblio, insieme alla felicità:

«Per anni era riuscita a essere felice solo dimenticando la felicità, e voleva continuare così. Voleva escludere tutto ciò che avrebbe potuto ricordarle l’esistenza della bellezza, che l’avrebbe di nuovo incitata a desiderare, ad anelare…»

Il duo è destinato ben presto ad allargarsi. Vi si aggiungono infatti Lady Caroline, per la quale un viaggio le si presentava allora al momento opportuno per soddisfare il desiderio di allontanarsi da tutto e tutti, «per riuscire magari a fare qualcosa della propria vita», e Mrs Fisher, una vedova arcigna, che «ambiva a starsene seduta al sole, in pace, a ricordare i bei tempi andati».

L’umore tetro della partenza si rischiara quando le donne arrivano in Italia, dove

«persino le nuvole erano più belle e paffute. […] Persino la pioggia era diversa, cadeva dritta sull’ombrello come è opportuno che faccia, non come la pioggia inglese che ti colpisce dappertutto. E poi a un certo punto smetteva, e il mondo rifioriva più bello di prima.»

Se in Chourmo di Jean-Claude Izzo «di fronte al mare, la felicità è un’idea semplice», per Mrs Wilkins la felicità è aprire la finestra della sua camera e restare abbagliata dalla bellezza del panorama che le si apre di fronte, respirare l’odore dei glicini e l’aria primaverile di un posto incantevole, armonizzarsi con ciò che la circonda.

Il tutto corroborato dalla gioia di poter essere finalmente se stessa, senza osservare e rispettare le rigide convenzioni e le noiose norme che la vita di società, quella di Hempstead, comporta. Un solo imperativo: respirare, esistere, vivere.

Differente è invece il soggiorno di Lady Caroline. Un’anima candida e dolce, giovane e bella, ma triste. La vita rumorosa e assordante di Londra diventa, nel castello di San Salvatore, un’esistenza altrettanto rumorosa, ma di pensieri che le riempiono la mente, aggravati dal senso di solitudine, dal sospetto che la vita le stia scivolando addosso e che vuoto è non solo il tragitto, ma anche la destinazione:

«Desiderava starsene da sola, non sentirsi sola. Era molto diversa la solitudine, faceva male, era come una ferita atroce nel profondo, la paura più grande. Era ciò che la spingeva ad andare a tutti i ricevimenti, e ultimamente anche a feste che in uno o due casi non le erano sembrate capaci di darle una protezione certa. Possibile che la solitudine non avesse nulla a che fare con le circostanze, solo con il modo che si ha di affrontarle?»

Mentre Lady Caroline è proiettata verso il futuro e da esso spaventata e angosciata, Mrs Fisher è convinta della superiorità incontrastata e incontrastabile del passato sul presente, giacché la perdita del marito aveva frammentato la sua esistenza e reso monotono il mondo:

«La guerra l’aveva distrutta. Si era portata via l’unico uomo con cui si sentiva al sicuro e che voleva sposare, creando in lei disgusto per l’amore. Da allora era amareggiata e come una vespa si dimenava per uscire dal pantano di miele appiccicoso che era la vita. Aveva le ali incollate, non riusciva più a volare.»

Il centro gravitazionale, sia che si tratti di Mrs Wilkins o Mrs Arbuthnot, sia che si tratti della giovanissima Caroline o Mrs Fisher, è l’amore: «Nulla aveva senso se non era costruito sull’amore». Ognuna di esse riflette su questo sentimento nobile e potente, e ognuna di esse lo vive in modo diverso. Tutte fanno i conti con l’amore e insieme, sia pure blindate nei cancelli della solitudine, sono convinte che:

«torneremo a casa rinfrescate e piene di energie che ci basteranno per tutta la vita. Nessuno di noi sarà più lo stesso, ne sono convinta, e non mi sorprenderei se Caroline finisse per innamorarsi di quel giovanotto. È nell’aria; qui tutti si innamorano per forza.»

Un incantevole aprile è un romanzo dell’amore e sull’amore, sull’amare e l’essere amati, perché come recita Albert Camus: «Non essere amati è una semplice sfortuna; la vera disgrazia è non amare».

E a Lady Caroline, per la quale «L’amore sembrava portare felicità a tutti tranne che a lei», John Keats le risponderebbe «forse un giorno lo saprai [cosa significa amare], ma non è ancora il tuo momento». A Mrs Wilkins direbbe, invece, «Le note dell’amore fanno la gioia più grande». Rincuorerebbe poi Mrs Fisher dicendole che «Una cosa bella è una gioia per sempre» e sosterrebbe l’infelice Mrs Arbuthnot con queste parole:

«Io stento addirittura a ricordarmi se ho mai sperato nella felicità, non la cerco fuori dell’attimo presente, niente mi spaventa più in là del momento. Il sole che tramonta sempre riuscirà a rimettermi in piedi.»

© Antonietta Florio

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