«Ho bisogno di questo diario di fortuna, di questo cumulo di giorni passati che ho deciso di chiamare come te. Senza, potrei cedere alla stessa disperazione di mamma. O peggio, pietrificarmi come ha deciso di fare papà. Ho bisogno di raccontarti com’è la vita senza di te, sorellina. Perché non so piangere, e spero ancora che tu – non so come – me lo possa insegnare.» (G. Penzo, Ogni giorno come il primo giorno)

Ogni giorno come il primo giorno, ovvero la possibilità di darsi una seconda possibilità. Petra e Cloe sono sorelle, diversissime ma indissolubilmente unite. Un sentimento, quello di Petra, che si intensifica ancora di più verso Cloe dopo la sua perdita, a causa di un incidente d’auto:
«La vita è un labirinto pieno di fosse e false piste. Eri il mio filo di Arianna e ti sei spezzata proprio mentre mi trovavo a un bivio».
La solitudine della prima trova conforto in un “caro diario”, che diventa il luogo intimo di un dialogo intenso e struggente con la seconda.
Sono pagine, quelle del diario, in cui Petra riversa tutto il suo dolore, in cui confessa la solitudine e lo sconforto che l’attanaglia da quella notte quando Cloe è andata via per sempre, pur essendo sempre lì con lei: «Ovunque tu sia, sei ancora qui». Ma è proprio su quelle pagine, dove c’è posto solo per il suo cuore distrutto, che la ragazza affida la sua promessa: non buttare più la sua esistenza, migliorarsi. Ovvero: imparare a vivere.
La vita spezzata di una giovanissima ragazza, una famiglia dilaniata da una sofferenza indicibile, i rimorsi che stringono lo stomaco, le lacrime che si fermano in gola e il tempo che si ferma, pur continuando a scorrere inarrestabile. Ma solo per gli altri. Per Petra il tempo si è fermato la notte in cui ha perso per sempre una parte di sé:
«Non mi sembra vero di dovermi abituare a parlare di te al passato. […] Non mi sembrano vere troppe cose reali che mi sono capitate in una manciata di giorni, e forse sarebbe la mia salvezza se mi convincessi di vivere un incubo dal quale non riesco a svegliarmi. Senza di te è tutto nuovo. È un’altra vita.»
Una vita nuova, ma incolore. Nuova, ma mutila. Nuova, ma come sospesa in un tempo senza tempo, con il timore di non riuscire a prenderne le redini e vederla – la vita e con essa le occasioni – scivolare via:
«Che posso fare, Morte?/ Per fare?/ Per andare avanti./ Te l’ho detto, vivere./ E che significa?/ Significa resistere alla tentazione di arrendersi.»
Parole che suonano come un mònito, che trafiggono e curano allo stesso tempo, che danno la forza per andare avanti, per svegliarsi, andare a scuola e affrontare un padre chiuso in un doloroso silenzio e una madre che ostenta indifferenza come arma per non capitolare definitivamente.
Il rapporto complicato, o quasi del tutto assente con la figura materna – che regalerà emozioni potenti nel corso della narrazione -, è un’ulteriore fonte di turbamento e sofferenza per Petra, che «non volevo essere niente», che non ha più alcun punto di riferimento, che si sente sbagliata in ogni dove, in ogni cosa che dice o fa e anche le intenzioni migliori, fatte di piccoli gesti – come preparare un panino alla mamma – risultano inutili e insignificanti.
Ma ognuno si protegge come può e affronta il dolore in modo diverso. E per un padre che sceglie di allontanarsi e una madre che, silenziosamente, finge di andare avanti, per una famiglia irrimediabilmente divisa («siamo piccole , stelle collassate su noi stesse, in attesa di spegnerci, ognuna immersa nel proprio universo glaciale»), le possibilità di Petra di ricostruirsi e rimettersi in sesto sono persone, quei regali che ad un certo punto la vita decide di fare, perché nessuno si salva da solo: Lore, un’amica di scuola, e Dario, studente universitario che offre ripetizioni di matematica.
La prima le insegna che gli errori fanno parte della vita, e forse ne costituiscono la componente più importante, se è vero che dagli errori s’impara:
«Hai il diritto di sbagliare, hai il diritto di deludere gli altri su quello che si aspettano da te. Hai diritto a essere una persona ordinaria».
Dario le insegna che i limiti sono fatti per essere superati, che tutti siamo e dobbiamo essere come la fenice:
«Ogni singolo giorno è una vita in miniatura: la notte ci si spegne per poi rinascere il mattino seguente».
Ambedue le insegnano a guardare avanti e ad avere fede in se stessa, che la vita è una e fragile, ma preziosissima, che bisogna godersi tutti i momenti e affrontare a testa alta anche quelli più brutti. Ambedue le insegnano che il passato, per quanto male possa fare, è la migliore cura, perché soltanto guardando indietro, soltanto guardando ciò che si è stati, ciò che si è affrontato, da dove si è partiti si acquisisce la consapevolezza di ciò che si è oggi:
«Rinnegarlo equivale ad annullarci; accettarlo, invece, significa avere coraggio da vendere. Solo gli intrepidi osano rialzarsi, sempre.»
Quando sembra che niente vada per il verso giusto, quando il sentirsi sbagliata, di troppo e fuori luogo dovunque e con chiunque s’impadroniscono della mente, espandendosi poi a tutto l’essere, quando i giorni brutti sono troppo brutti per guardarli in faccia, quando sembra di non avere punti di riferimento e ciò che si è costruito fino a questo momento si sgretola lentamente ma inarrestabilmente («Dovrei stare ferma, non muovere l’aria, non parlare, non…esistere»), quando le basi ci sono, ma forse sono troppo precarie, è allora che bisogna aggrapparsi con tutta le forze alla vita.
È quello il momento per andare avanti, mai indietro. È quello il giorno propizio per ricominciare a costruire la trama della propria vita, per imparare ad amarsi e ad accettarsi, per essere guerrieri instancabili alla ricerca del proprio posto nel mondo, una battaglia che deve essere combattuta con ancora più vigore allorquando l’impresa risulta massimamente complicata e su di essa grava massicciamente il rischio del fallimento. È quello, infine, il momento di vivere ogni giorno come il primo giorno.
La penna di Giorgia Penzo, densa e affilata, insegna ad apprezzare e ad amare la vita, soprattutto nei momenti più bui. Insegna che sorridere dopo una grave perdita non significa dimenticare, insegna che lasciar andare il passato non vuol dire affatto cancellare ciò che è stato: «Ti lascio andare, sorellina, e ti porto con me».
L’autrice, mettendo in luce il dissidio tra l’io soggettivo e il mondo, tra l’interno e l’esterno, tra la voglia di vivere e la paura di ricominciare, si sofferma altresì sul rapporto genitori-figli, evidenziando come e quanto l’incomunicabilità sia deleteria all’interno del nucleo familiare, poiché origina convinzioni illusorie, e per ciò stesso illusorie, e quanto più si sedimentano nella coscienza tanto più fanno male.
L’unione fa la forza e a sancirla è l’abbraccio tra Petra e la mamma: disarmante e commovente, tanto che si ha l’impressione di percepirne il calore. Non solo, ma è quell’abbraccio che libera e salva entrambe:
«Ho scoperto una cosa inestimabile in questo viaggio durato un anno intero, cioè che ognuno di noi nasce con un destino: salvare una persona, almeno una. È l’unico dettaglio già scritto della nostra esistenza ed è un compito inconscio.»
Lettura consigliata!
© Antonietta Florio
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L’ha ripubblicato su Gio.✎.
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