«Fedele alle proprie apparenze, il violento non si scoraggia, ricomincia e si ostina, giacché non può esimersi dal soffrire. Si accanisce affinché gli altri si perdano? È la via traversa che imbocca per ritrovare la strada della propria perdizione. Dietro la sua aria sicura, dietro le sue fanfaronate, si nasconde un appassionato dell’infelicità. È quindi fra i violenti che si incontrano i nemici di sé. E noi tutti siamo dei violenti, degli arrabbiati che, avendo smarrito la chiave della quiete, ormai hanno accesso soltanto ai segreti dell’inquietudine.» (E.M. Cioran, La tentazione di esistere)

Ne La tentazione di esistere, Emil Cioran naviga con i suoi pensieri nel tema del nulla e rinserrato nella sua solitudine, nella «sospensione delle vibrazioni, anzi delle facoltà», guarda non solo il tempo presente, ma anche quello che c’è stato prima e ciò che ci sarà in futuro. La scrittura di Cioran, come annota Pietro Citati, è un’«irradiazione di luce» e i suoi pensieri «sono schegge, frantumi […] che disegnano una città irreale della mente, una musica lieta, sfavillante e demoniaca dello spirito».
Riflessioni toccanti, quanto più riguardano da vicino ciascuno di noi, non soltanto presi nella nostra individualità, ma anche in quanto componenti di una società. Malati di speranza e da questa disintegrati (del resto, asserisce Nietzsche: «La speranza è il peggiore tra i mali, poiché prolunga il tormento degli uomini»), prigionieri delle illusioni e sottomessi alla vita contemplativa che presuppone come condizione primaria e necessaria una certa inoperosità e passività, non ci rendiamo conto che la liberazione deve procedere da noi stessi, senza ricercarla in un qualche ordine o sistema sincreticamente costruito.
«Ce l’ho col nostro secolo per averci soggiogati fino al punto di ossessionarci anche quando ce ne distacchiamo. Nulla di valido può nascere da una meditazione di circostanza, da una riflessione sull’avvenimento.»
D’altronde, osserva ancora Cioran: «vivere l’eternità significa vivere giorno per giorno». E vivere significa agire, la qual cosa comporta che il soggetto è a un tempo agens e patiens dei propri atti, che a loro volta – complice massimamente la sapienza filosofica – si scindono in Bene e Male, saggezza e ribellione, ragione e follia.
Il risultato è, dunque, una frammentazione dell’unità, un’alterazione irrimediabile dello stato di quiete, che non rende possibile forma di salvezza alcuna: «Non si può essere insieme normali e vivi».
La sofferenza è, allora, l’unico modo per acquisire la sensazione di esistere. Una volta di più, siffatto pensiero investe la civiltà nel suo insieme. Una civiltà che si annoia e che imputridisce lo spirito corrodendolo dall’interno, che è malinconica quando abbandona le sue mire espansionistiche e placa l’entusiasmo fagocitante di dominare, prevaricare, egemonizzare («Agire è una cosa; sapere che si agisce è un’altra»).
Quest’aspirazione di salvare il mondo, unitamente all’istinto di conservazione, è un’energia distruttrice, una tendenza ad (auto)annientarsi, ad incamminarsi verso il puro nulla, seguendo il lumen fascinoso del peggio, della rovina, giacché «più siamo defraudati, più si inaspriscono le nostre bramosie e le nostre illusioni». Ciò detto, vale anche per i mistici:
«Deificarsi, distruggersi per ritrovarsi, inabissarsi nella propria chiarezza, per tutto ciò occorre più energia e temerarietà di quanto ne richieda il resto dei nostri atti.»
Mentre gli Ebrei, un popolo di solitari, sognano il Paradiso, ma urtano contro il Muro del Pianto, l’amico-scrittore a cui il filosofo e saggista romeno si rivolge, è fatalmente destinato a svanire nella parola, nei libri che somigliano sempre più a un confessionale laicizzato, locus in cui dimora «un’anima-manifesto»:
«Scrivere libri non è senza un qualche rapporto col peccato originale. Cos’è infatti un libro, se non una perdita d’innocenza, un atto d’aggressione, una riedizione della nostra caduta? Pubblicare le proprie tare per divertire o esasperare! Una barbarie nei confronti della nostra intimità, una profanazione, una sconcezza. E una tentazione.»
Per una letteratura che si assottiglia, divenendo sempre più l’humus del nulla, l’orgia della vacuità, in tempi come quelli di oggi in cui a contare è la quantità a detrimento della qualità e della «squisitezza dello stile», in cui la sapientia degli antichi Greci ha cessato di essere un punto di riferimento e in cui sembra che non ci sia più un passato, l’antidoto è, secondo Cioran, vivere un’èra di non-letteratura.
«Noi non abbiamo più un passato, o meglio non c’è più niente del passato che sia nostro; niente più paese d’elezione, salvezza ingannatrice, rifugio nel tempo trascorso. Le nostre prospettive? Impossibile intravederle: siamo dei barbari senza avvenire. […] fare dei libri e mostrarsene fieri costituisce uno degli spettacoli più pietosi […]»
Poi, con rassegnazione e amarezza, aggiunge:
«Comunque, non c’è più nulla da costruire, né in letteratura né in filosofia. Solo quelli che ne vivono, materialmente s’intende, dovrebbero dedicarvisi. Entriamo in un’epoca di forme spappolate, di creazioni alla rovescia. Chiunque potrà prosperarvi. Ma queste sono facili previsioni. La barbarie è accessibile a chiunque: basta prendervi gusto. Ci apprestiamo allegramente a disfare i secoli.»
Ma la scrittura non è altro che lo specchio di manchevolezze («il romanziere diventa un archeologo dell’assenza»), il riflesso di manie di individualismo, di megalomanie addirittura. Una questione di facciata. Protagonisti e spettatori al e del teatro dell’assurdo: quello della disgregazione della lingua sotto le mentite spoglie dell’emancipazione. Del resto, la vacuità del linguaggio e il vuoto che si scorge nelle parole è il vuoto medesimo delle cose. È il divorzio tra i segni e la realtà.
Lo stesso dicasi per l’arte e per l’artista:
«è l’individuo che fa l’arte, non è più l’arte che fa l’individuo, come non è più l’opera che conta ma il commento che la precede o la segue. E la cosa migliore che un artista produce sono sono le sue idee su quello che avrebbe potuto compiere. è diventato il critico di se stesso, come l’uomo qualunque lo psicologo di se stesso.»
La riflessione ultima di Emil Cioran si catalizza una volta di più sul nostro passato, dal quale traiamo (o crediamo, o speriamo di trarne) insegnamento, ma esistere è un atto di fede e l’uomo, in quanto essere-nel-mondo in senso heideggeriano – deve fare l’esperienza del vuoto che è in sé, deve dissolversi nell’Essere. E così conclude:
«Il Nulla era la mia ostia: tutto in me e fuori di me si transustanziava in spettro. Irresponsabile, agli antipodi della coscienza, finii per abbandonarmi all’anonimato degli elementi, all’ebbrezza dell’indiviso, determinato a non più reintegrare il mio essere né a ridiventare un civilizzato del caos.»
Lettura consigliata!
© Antonietta Florio