Mariella Ceglie, La tisana di Ippocrate

«Si ricominciò una nuova vita. I giovanissimi della nuova generazione si rimboccarono le mani. Il mondo sembrò ricominciare da zero. I pochi rimasti delle vecchie generazioni si rassegnarono al nuovo mondo. Il futuro era in mano alle giovani generazioni dal momento che le vecchie generazioni erano state artefici di un fallimento totale sul piano sociale, politico e sanitario.» (M. Ceglie, La tisana di Ippocrate)

Ventitré racconti, brevi dal punto di vista delle pagine, ma dallo spessore contenutistico intenso e profondo, compongono La tisana di Ippocrate di Mariella Ceglie. Le storie presentano protagonisti e deuteragonisti differenti, gli esseri umani ivi dipinti godono per la maggior parte della presenza degli animali, il reale si colora talvolta di tinte fosche, con la sensazione quasi di sfogliare un thriller o un noir, e finisce col mescolarsi col surreale, il cui risultato è in termini freudiani unheimlich, perturbante.

Ma vi sono anche personaggi che vivono il miracolo della vita, come Tea che, grazie alla musica, riacquista la vista. La sua esistenza s’illumina e di conseguenza le melodie composte e suonate al pianoforte addolciscono e commuovono tutti. Persino il lettore è trascinato in questo universo contornato da una flautata e angelica sinfonia:

«Era una bella giornata di sole, la finestra della stanza dove c’era il piano era aperta, la primavera era alle porte. La melodia raggiungeva le vie del paese. Pareva una preghiera, un ringraziamento, una lode al Signore.»

Non meno commovente è la storia di Settimio in Servizio militare, il quale si chiede cosa sarebbe successo, come sarebbe stata la sua vita se avesse fatto scelte diverse, se avesse intrapreso un altro percorso e se le sorti, di conseguenza, sarebbero state diverse. Ma, appellandoci ad Alessandro Baricco: «Accadono cose che sono come domande. Passa un minuto, oppure anni, e poi la vita ti risponde».

Un cambiamento di registro si ha ne La tisana di Ippocrate, il racconto che dà il titolo alla raccolta. Qui, protagonista è un conte, «rimasto vedovo di ben tre mogli». Un essere burbero, insopportabile e iroso che non perde occasione per deridere e schernire la dama di compagnia, la quale «lo vedeva quasi più come padre che come uomo».

Tra una tisana e l’altra vi sono momenti in cui l’autrice riflette sull’oggi e induce a una riflessione altrettanto amara, a un’introspezione soggettiva che finisce ineluttabilmente per coinvolgere anche l’Altro, per citare Emmanuel Lévinas. Seguono questa scia i racconti a tema natalizio e, più in particolare Vigilia di Natale, laddove si è spronati a porsi un interrogativo apparentemente insolubile, senza risposta: “qual è il significato del Natale al giorno oggi?”.

Una domanda che in realtà, come sopra accennato, non è irrisolta. Ne Il Cristianesimo. La religione dal cielo vuoto, il filosofo Umberto Galimberti, offre una risposta chiara e inequivocabile, definendo il Natale degli occidentali come ateo o semplicemente agnostico, laddove i doni dei Magi sono diventati merce, materializzazioni, «mercato degli affetti», e sicuramente laico:

«Di cristiano è rimasto solo il rito che si ripete, la ricorrenza che ritorna, la festa che, come nessun’altra, è davvero “comandata”. Comandata da chi? Dalla nostra economia naturalmente che, per quanto in recessione, resta comunque un’economia dell’opulenza, dove il consumo e lo spreco sono sotto gli occhi di tutti in un tripudio di malcelata festività.»

In Pranzo di Natale, la suddetta citazione trova pienamente conferma, quanto più si delinea un’antitesi irriducibile tra la ghiottoneria degli invitati che vengono interrotti proprio «mentre le forchette si infilavano nelle bocche affamate» e «alcuni rimasero delusi e guardavano i cibi con grande dispetto» e la preoccupazione di Dora per il figlioccio. La quale preoccupazione diventa sofferenza per tramutarsi poi in caritas, giacché «Il Natale vero, poi, non è rendere felici gli altri con generosità?»

«Squarci di esistenza, quadri di vita insoliti» che sortiscono un effetto, per così dire, antinomico: un (sor)riso amaro alla maniera dell’umorista francese Alphonse Allais descritto in Les noces du rire et de l’humour noir, un divertissement commisto a un mesto compiacimento, a un’amarezza di fondo.

Lettura consigliata, accompagnata, ça va sans dire, dalla tisana d’Ippocrate!

© Antonietta Florio

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