«Jünger, invece, deve essere necessariamente riconosciuto come uno degli studiosi più attualizzabili per comprendere l’epoca che viviamo e il futuro che ci viene prospettato, ed anche attentamente studiato per i dispositivi di attivo pessimismo e di lucida consapevolezza che propone ad ogni uomo che vuole dare un significato al suo stare al mondo.» (L. Iannone, Ernst Jünger)

La collaborazione di ben trenta autori, tra esperti, docenti e ricercatori universitari impegnati in varie discipline e provenienti da esperienze diverse, l’eterogeneità (ma solo apparente) dei loro punti di vista sapientemente messi insieme, ha portato alla realizzazione del volume Ernst Jünger, curato da Luigi Iannone.
Ognuno dei succitati autori si è focalizzato su una tematica jüngeriana, ha preso in considerazione il punto di vista del solitario di Wilflingen e lo ha analizzato minuziosamente rendicontando delle sue opere (Cuore avventuroso, Tempeste d’acciaio, L’operaio, Trattato del ribelle). L’intentio che unisce il team di scrittori è di veicolare un’immagine di Jünger che possa essere per i lettori occasione per scoprirlo e conoscerlo più da vicino.
Vita e opere sono intimamente connesse. Ciò che scaturisce dalla sua penna altro non è che la risultante della sua esperienza esistenziale, dell’osservazione pedissequa e meticolosa che egli rivolge alla società e al mondo cui appartiene, non circoscritto nel solo Lebensraum della Germania. Il fulcro del pensiero di Jünger è difatti costituito dalla riflessione sullo sviluppo tecnologico-scientifico che contrassegna la modernità:
«Il mondo tecnicizzato è «lo spettacolo di fronte all’abisso», a cui per un tratto assistiamo come spettatori e dal quale, poi, veniamo assorbiti come oggetti.»
Partendo dal presupposto che «il valore individuale è annullato dallo strapotere della tecnica», Jünger mira con «sguardo stereoscopico» alla ricerca di un aequilibrium tra l’uomo e la macchina, alla bellezza che pervade il mondo («La bellezza risiede nella penna, cioè nel saper descrivere la superficie e tramite questa far risplendere la profondità») e ci scuote tramite esplosioni policrome:
«Ogni sentiero non è mai solitario, ma è il punto di snodo di altri; così sono le strade delle città, le case, i palazzi e gli edifici che incontriamo all’interno del nostro fare-esperienza del mondo.»
Da qui seguono due osservazioni. Da una parte, la contemplazione stereoscopica di Jünger che coniuga il piacere intellettuale e filosofico, politico e letterario, culmina nella “corporeità” della sua scrittura. Egli è cioè «scrittore attento al battito del proprio cuore, alle sensazioni che da esso promanano».
Dall’altra parte, l’indagine jüngeriana s’incentra sia sull’individuo, che da fundamentum del mondo è diventato “una cosa tra le cose” (Heidegger), sia sui luoghi, descrivendo una «topografia spirituale» atta a cogliere non solo la storicità dei luoghi, bensì anche la loro identità profonda (nei termini di James Hillman, l’«anima dei luoghi»). Infatti,
«Il compito ermeneutico del contemplatore durante la sua avventura geo-grafica sta nel saper individuare e imporre con mano aggraziata un ordine all’interno dei percorsi casuali, ripercorrendo i sentieri interrotti, avventurandosi nel deserto, tracciare nuove linee che assecondino la naturale armonia delle cose cercando così di suggerire un nuovo ordine alle cose.»
La tecnica, che ha risucchiato nel suo vortice impetuoso l’Operaio, ha creato sentieri trascendentali – il deserto appunto. Detti sentieri sono intrapresi da nuove figure: il Ribelle e l’Anarca. Il primo, auspicando alla sua propria rinascita, al ritrovamento del suo vero Sé, della sua vera e più profonda essenza, abbandona il paesaggio industriale per avventurarsi nel bosco, il cui passaggio coincide con «l’esito di una trasformazione palingenetica». L’Anarca, invece, «indifferente a tutto trova in sé l’origine trascendente dell’autorità».
Ambedue comunque – il Ribelle e l’Anarca – si allontanano dal recinto sociale, ne oltrepassano i confini e così facendo reagiscono al nietzschiano ospite inquietante, il nichilismo, quel Nulla difficile da definire, dal momento che «è impossibile per la mente giungere a una rappresentazione del niente. […] Del niente non ci si può formare né un’immagine né un concetto». Ma è in questo Nulla che costantemente naufraghiamo senza renderci conto che siamo ormai degli automi. Scrive Jünger in Eumeswil:
«Noi non naufraghiamo contro i nostri sogni, ma contro la nostra incapacità di sognare con forza sufficiente.»
Detto in altri termini, l’individuo disorientato e confuso non è più in grado di adoperare attivamente la vis imaginativa, corrotta com’è dalla matrice nichilista, dalla quale sono germinate incertezze e crisi di valori. Inoltre, dato che «Il mondo nichilistico è per sua essenza un mondo ridotto e che sempre più si va riducendo […] verso il punto zero», lo spirituale confluisce irrimediabilmente nel materiale, il cui apice oltremodo drastico è rappresentato da un terribile, quanto temibile vuoto interiore.
È per questo che fare l’esperienza dell’epoca moderna, là dove la tecnica ha preso pieno possesso dello spazio, del tempo e «del fondamento nascosto su cui si regge la vita umana in generale, inserendosi fin nel vincolo interno che lega non solo le operazioni dell’uomo ma anche le sue dinamiche di coscienza», significa esperire la potenza del niente.
Una volta di più, Ernst Jünger volge lo sguardo sull’uomo che, dinanzi all’illimitato e potente dominio della techne, da cui consegue la mancanza del limite e, dunque, innesca un processo autodistruttivo, ha smarrito il suo profilo identitario. Per dirla più semplicemente: l’individuo, caduto sotto la giurisdizione della tecnica, e dinanzi alla crescita e al benessere materiali, è indotto a credere di poter essere tutto ciò che che può immaginare. È per questo che egli non sa chi effettivamente sia.
Qui non solo viene a cadere il precetto delfico del “conosci te stesso”, ma ci si ritrova in una condizione di impoverimento, giacché «poter essere tutto significa non essere nulla di determinato». Per poter quindi conservare la “ciascunità” (neologismo di James Hillman), ovvero la libertà di essere se stesso, per rispondere alla chiamata del daìmon, Jünger prescrive di passare attraverso il bosco, di andare incontro all’ignoto, perché la salvezza avviene solo consegnandosi all’annientamento («Rasente all’annientamento c’è il trionfo»):
«Seguire il proprio desiderio è l’unica scelta che può fare un uomo di carattere, mentre gli altri possono adeguarsi a soddisfare le proprie voglie contingenti. Il primo è l’uomo differenziato, colui che sa assumersi il rischio delle proprie scelte, la responsabilità delle proprie decisioni, l’opportunità della propria realizzazione.»
Lettura consigliata!
© Antonietta Florio
[…] Il passaggio al bosco deve essere inteso come un processo di interiorizzazione e di rinascita personale, rispondente alla forte esigenza di individualità. È un atto di libertà, «indipendente dai paraventi tecnico-politici» e di “autarchia interiore”. Scrive Manuel Rossini in Ernst Jünger, volume collettaneo curato da Luigi Iannone: […]
"Mi piace""Mi piace"