Robert Harris, Imperium

«Il nome di Cicerone era ormai famoso, anche fuori Roma, e la gente accorreva per vederlo soprattutto nei centri più grandi e sedi di tribunali, perché i discorsi preparati per l’accusa a Verre, anche quelli poi non pronunciati, erano stati copiati e fatti circolare. Era un eroe sia per le classi umili sia per i rispettabili cavalieri, che in lui vedevano un paladino da opporre all’alterigia e alla rapacità dell’aristocrazia.» (R. Harris, Imperium)

Imperium di Robert Harris è un romanzo storico incentrato sulla figura di Marco Tullio Cicerone, in un arco di tempo che va dal 74-73 a.C. al 63 a.C. (anno in cui l’avvocato romano viene eletto console) e raccontato in prima persona dal quasi centenario Tirone, suo fedele segretario, «testimone dei suoi incontri privati, latore dei suoi messaggi segreti» e inventore della stenografia. Poco prima di morire, egli avverte il bisogno di rispondere alla domanda che in molti gli hanno posto, ovvero: “che tipo era veramente Cicerone?”.

«Ma ora che la mia vita è quasi al termine e non temo più nulla – nemmeno la tortura, perché tra le mani del carnefice e dei suoi aiutanti non resisterei nemmeno un minuto – ho deciso di rispondere alla domanda con questo lavoro, che si basa sulla mia memoria oltre che sui documenti all’epoca affidatimi.»

Da qui comincia la Storia e la sua storia; la storia del potere e dell’imperium, la storia di Cicerone, che desiderava ardentemente entrare in politica (considerandola una vera e propria professione e non – contrariamente a quanto ritiene il cugino Lucio – uno strumento di lotta per il triondo della giustizia). E per accedervi usò il talento come risorsa unica e preziosa («Se vuoi il potere c’è un momento in cui devi prendertelo: e questo è il mio momento»), a dispetto di quanti (molti a dire il vero!) non avrebbero scommesso sul suo futuro.

«A volte, se ci si trova invischiati nella politica, bisogna dare battaglia anche se non si sa come fare per vincere: perché solo quando si è in battaglia e tutto è in moto si può sperare di superare un ostacolo.»

Per riposare la mente, l’allora ventisettenne Cicerone decide di mettersi in viaggio. Tirone lo accompagna e all’Accademia di Atene studiano filosofia al cospetto di Antioco di Ascalona.

Virtù, sulla base del precetto stoico, diventa la parola-chiave. Essa è indispensabile per raggiungere la felicità, per trovare il bene e vivere in esso. Dopodiché l’avvocato apprende da Molone i trucchi dell’oratoria, seguendo il metodo classico della memorizzazione del discorso: un vero oratore non declama in pubblico leggendo su testi o appunti, giacché «l’importante non è ciò che si dice, ma come lo si dice».

Dalla politica ai sentimenti, dal processo contro Verre e la legge Gabinia contro la corruzione al matrimonio con Terenzia, al rapporto speciale con la figlia Tullia, a una sorta di amarezza nel non riuscire ad avere eredi maschi, quando finalmente nasce Marco (al quale dedicherà poi il De Officiis), Tirone presenta Cicerone come fosse un individuo tutt’oggi vivente. Uno di noi, ma a noi superiore.

Già, perché lui è l’homo novus, colui il quale ha un unico obiettivo: diventare console e, per questa strada rivitalizzare la Repubblica («Stiamo assistendo all’inizio della fine della Repubblica, Tirone, ricorda le mie parole»). Ma, si sa, a volte bisogna sporcarsi le mani, oltre che obbedire al genio della perseveranza («Solo la perseveranza ti consente di farti strada nella vita»), per cui l’oratore per riuscire nell’intento non ha altra strada che accattivarsi la simpatia di chi è al vertice. Entrano allora in scena Pompeo, Crasso, Giulio Cesare e Catilina.

In questo frangente, al di là della Storia nel senso più stretto del termine, ciò che Harris fa emergere è la personalità di Cicerone, a un tempo forte e fragile, temeraria e timorosa, fiducioso e insicuro, ambiziosa e sognatrice, ma restando con i piedi ben piantati nel terreno. Particolarmente significativo e suggestivo è il passo seguente, non soltanto perché a proferirla è lo stesso oratore, quanto perché traduce un pensiero (o una persuasione) che, chi più e chi meno, ha:

«A volte è sciocco manifestare troppo presto un’ambizione, perché esporsi prematuramente alle risa e allo scetticismo del mondo che ci circonda può distruggerla prima ancora che abbia acquisito una sua precisa fisionomia. A volte però avviene il contrario, e il semplice citare qualcosa fa sì che immediatamente questo qualcosa sembri possibile e perfino plausibile.»

E poi, ancora, il racconto di Cicerone stesso sulle sue origini, focalizzandosi sia pure brevemente ma con una certa enfasi, sulla figura di sua madre. Quindi, di nuovo, Terenzia, il legame con la quale non era d’amore (o, almeno, non l’amore cantato dai poeti), ma era tuttavia solido: «se lui era una spada, lei era la pietra l’affilava», i cui risvolti, che Tirone ben descrive, sono dei più felici. Da matrimonio di convenienza, infatti, i due erano riusciti a realizzare un’alleanza straordinaria.

Ma Cicerone nutre un amore profondo e sincero anche per l’Urbe:

«Roma è la più sublime personificazione della libertà e della legge mai realizzata dal genere umano da quando, diecimila anni fa, i nostri antenati sono scesi da quei monti e hanno imparato a vivere in comunità obbedendo alla legge. […] Ognuno prima di morire dovrebbe vedere Roma.»

Concludendo così:

«Uno che aveva coltivato un ideale di Repubblica e di che cosa significhi essere un cittadino: un ideale la cui fiamma bruciava alta nel suo cuore perché anche lui era un “uomo nuovo”.»

E questo uomo nuovo e straordinario quale è (stato) Marco Tullio Cicerone, ottenendo nel 63 a.C. l’imperium supremo di console romano, senza aver potuto contare sulla famiglia, sulla ricchezza o sui successi militari, ma unicamente sulle sue forze, sulle sue capacità, sulla convinzione (talvolta instabile) di potercela fare, ha ancora oggi qualcosa da insegnare agli uomini di oggi. Anzi, ha ancora molto da insegnare. Forse tutto.

Lettura consigliata!

© Antonietta Florio

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