«Risalii anch’io, in silenzio, e subito ripartimmo. Ella starnutò, poi, un paio di volte molto sonoramente, in modo ricattatorio, quasi a lasciarmi intendere che le avevo fatto prendere un raffreddore. Ma non raccolsi la provocazione: ormai guidavo come in sogno. Un brutto sogno in cui io mi chiamavo realmente Riccardo e avevo una moglie che si chiamava Emilia, e io l’amavo e lei non mi amava, anzi, mi disprezzava.» (A. Moravia, Il disprezzo)

Edito nel 1954, Il disprezzo di Alberto Moravia è un romanzo incentrato su un rapporto di coppia giunto al capolinea. La domanda sorge quasi spontanea: autobiografia o pura finzione narrativa? La componente autobiografica potrebbe certamente costituire la base della storia, dal momento che in quel periodo Elsa Morante aveva una relazione con il regista Luchino Visconti (ma di questo se ne parlerà poi).
Nonostante ciò e nonostante l’uso della prima persona, Moravia si dimostra infallibile ed eccezionalmente lucido nel seguire, senza la benché minima interferenza, le odissee mentali e interiori del suo personaggio, il cui vissuto si presta a più chiavi di lettura, le quali convergono, come si vedrà, in un unico centro.
«Questa storia vuole raccontare come, mentre io continuavo ad amarla e a non giudicarla, Emilia, invece, scoprisse o credesse di scoprire alcuni miei difetti e mi giudicasse e cessasse di amarmi in conseguenza.»
Protagonista è Riccardo Molteni, aspirante scrittore di drammi teatrali, che per una serie di circostanze è costretto a mettere il suo sogno nel cassetto e a lavorare come sceneggiatore. Il motivo principale per il quale egli sacrifica il suo desiderio è la moglie, Emilia.
Attanagliato dai ricordi, Riccardo ripercorre à rebours la vita matrimoniale: idilliaca e perfetta nei primi anni («La felicità è tanto più grande quanto meno la si avverte»), quasi noiosa e non priva di angoscia nel prosieguo («mi mancava la sicurezza del domani»), fino a quando l’abitudine spegne la passione:
«Ma appena mi accorsi che […] sembrava preferire di restar sola, cominciai ad avvertire un’oscura angoscia, come di chi, tutto ad un tratto, si senta mancare il terreno sotto i piedi.»
Comincia così il viaggio di Riccardo Molteni, un’avventura intensa e dolorosa, quanto più si accorge che Emilia “lo amava di meno nient’affatto”. Il lavoro e l’amore sono le due componenti romanzesche che, dall’inizio alla fine, sono strettamente legate, ma il protagonista parte da qui:
«La mia storia comincia, appunto, con gli esordi del mestiere di sceneggiatore e col primo peggioramento dei miei rapporti con mia moglie, due avvenimenti quasi contemporanei e, come si vedrà, legati tra loro da un nesso diretto.»
Dov’è il nesso? In più punti Riccardo “batte la lingua dove il dente duole”: per rendere felice Emilia ha messo a tacere il suo daìmon, ha rinunciato alle sue ambizioni letterarie, lavorando alle dipendenze di Battista. Il motto è “lavorare per guadagnare”, soprattutto quando, dopo l’acquisto di un appartamento (anche questo per accondiscendere la moglie) avere un’entrata fissa e certa diventa imprescindibile.
L’amore rende ciechi, si sa. L’amore priva del raziocinio, quando si ama si guarda con gli occhi del cuore, non della mente, e inevitabilmente si finisce col cadere vittima dell’illusione, “col dimenticare ciò che non si vuole ricordare”. Si è disposti a tutto pur di non guardare in faccia la realtà e Molteni è, in questo frangente, l’incarnazione di colui che, per quanto desideri la verità, ha timore di venirne a conoscenza:
«Presi dunque a vivere come un uomo che porta dentro di sé il malessere di una malattia incombente, ma non si decide mai ad andare dal medico; ossia cercando di non riflettere troppo né sul contegno di Emilia verso di me, né sul mio lavoro.»
Eppure sente di aver trovato la risposta alla domanda “m’ama o non m’ama?”. I cambiamenti nel modo e nel tono di parlare, negli atteggiamenti, nei momenti di intimità spianano la strada che conduce alla mèta, pur continuando a nutrire la speranza che il tutto sia un loop mentale:
«Come nelle scatole cinesi, ciascuna delle quali ne contiene una più piccola, la realtà pareva contenere un sogno il quale a sua volta conteneva una realtà che a sua volta conteneva ancora un sogno e così all’infinito.»
Già, perché la paura di soffrire troppo e di non riuscire a sopportarne il peso spinge a far pendere l’ago della bilancia là dove sembra che faccia meno male, a farsi cullare dalla capziosità dei castelli di sabbia, induce a restare sul terreno del dubbio e, non da ultimo, a convincersi che il tutto sia frutto di un’interpretazione erronea:
«Ho notato che quanto più ci si sente dubbiosi, tanto più ci si aggrappa ad una falsa lucidità della mente, quasi sperando di chiarire con la ragione ciò che il sentimento intorbida e rende oscuro.»
Ma la verità non può restare in silenzio, prima o poi viene a galla e se trattenuta per un lungo periodo, la veemenza con la quale fuoriesce spiazza e addolora in una maniera ineffabile. Alberto Moravia, degno successore di Flaubert, proseguendo lo studio lucido, disincantato, impassibile e oggettivo di ciò che accade nel suo protagonista, rende il lettore suo complice e lo fa soffrire, tanta è l’empatia verso quest’uomo follemente innamorato e drasticamente rifiutato, anzi disprezzato:
«“Io ti disprezzo… ecco quello che provo per te, ed ecco il motivo per cui non ti amo più… Ti disprezzo e mi fai schifo ogni volta che mi tocchi… Eccola la verità… ti disprezzo e mi fai schifo.”»
La realtà, quella vera, abbatte definitivamente le costruzioni mentali aleatorie di Riccardo, il quale è ora consapevole che se con il corpo vive sotto lo stesso tetto con Emilia, con l’anima e con il cuore si trovano in due mondi diversi, la cui distanza è pressoché irriducibile. Ferito nei sentimenti, deluso e tradito dalla donna amata, Molteni ripudia il lavoro come sceneggiatore, ammettendo finalmente di provarne addirittura ostilità:
«Io avevo finora lavorato per Emilia e soltanto per Emilia; venendomi a mancare il suo amore, il mio lavoro non aveva più scopo.»
E qui, l’indagine “moraviana” si apre a due altre interpretazioni, entrambe catalizzate intorno all’Odissea omerica: la prima chiama in causa la stagione del cinema del Neorealismo, la seconda riguarda la dimensione puramente individuale che giunge alla fatidica frase “segui i tuoi sogni”.
Quanto al cinema, la trasposizione cinematografica dell’opera omerica diventa, se si vuole, il luogo di scontro tra esteriorità e interiorità: l’intenzione non è di proiettare la scoperta del Mediterraneo, l’accordo dell’uomo con la natura, bensì navigare nel subcosciente di Ulisse, indagando i rapporti con Penelope, analizzando i motivi che lo hanno spinto a partire alla volta di Troia e perché ha impiegato dieci anni per far ritorno a Itaca. Un film, dunque, non ambientato nel mondo sensibile, reale, ma incentrato su un dramma psicotico.
La lettura psicologica del tedesco Rheingold richiama Riccardo alla realtà e questi, una volta di più, si trova a fare i conti con se stesso: dopo essersi donato anima e corpo alla donna che non solo è incapace di amarlo, ma che addirittura lo disprezza «in una maniera definitiva e irrevocabile», l’unica cosa di cui ha certezza è la rinuncia alle sue ambizioni letterarie:
«Ora, a ventisette anni, si hanno invece quelli che di solito si chiamano degli ideali… e il mio ideale è scrivere per il teatro… Perché non posso farlo? Perché il mondo oggi è congegnato in modo che nessuno può fare quello che desidererebbe e deve invece fare quello che gli altri desiderano… Perché c’è sempre di mezzo il denaro, in quello che facciamo, in quello che siamo, in quello che vogliamo diventare, nel nostro lavoro, nelle nostre aspirazioni migliori, persino nei nostri rapporti con le persone che amiamo.”»
Per estensione, è l’analisi fredda e incredibilmente lucida di Moravia, da sempre e per sempre combattivo contro la società borghese, irretita nei luoghi comuni e i cui ideali ruotano unicamente intorno al denaro, dimostrandosi perciò incapaci di seguire altre vie.
Ma c’è e ci sarà qualcuno che si staccherà dalla massa, che non si omologherà e correrà il rischio di essere escluso: quell’uno, per restare nella mitologia omerica, è l’Ulisse civilizzato, che “non ha pregiudizi, adopera la ragione a tutti i costi e dappertutto, nell’amore come nell’onore, nella dignità come nel decoro”.
Ciò che più conta, infatti, è non rinunciare ad essere se stessi, a seguire la propria strada sempre e comunque, perché il momento giusto arriverà:
«[…] vuol sapere il segreto del successo Molteni?” – “Qual è?” – “Mettersi in fila nella vita, come in fila davanti allo sportello dei biglietti, nella stazione… viene sempre il nostro momento se si ha pazienza e non si cambia fila… Viene sempre il nostro momento e l’impiegato allo sportello dà a ciascuno il suo biglietto… a ciascuno secondo i suoi meriti, beninteso… a chi deve e può andare lontano magari un biglietto per l’Australia… agli altri che non ce la fanno, un biglietto per un viaggio più corto… magari Capri.”»
Lettura consigliata!
© Antonietta Florio
[…] medesimo concetto che Riccardo Molteni, il protagonista de Il disprezzo di Alberto Moravia, costretto per amore e per necessità, a deviare il cammino che avrebbe dovuto […]
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Gran bel libro!
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[…] ne rappresentano una caratteristica che va via via accentuandosi e che ricorda vagamente il Dino, protagonista de Il disprezzo, tirano Dorigo ora da una parte, ora dall’altra, rendendolo praticamente immobile, incapace […]
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