«Mi sembrava che troppe cose in me non andassero. Era come voler afferrare qualcosa che era andato o arrampicarsi alla certezza di qualcosa che doveva venire, e il presente, io mio qui e ora, che era l’emblema della mia filosofia della Gestalt, mi tratteneva in un territorio immobile, statico, da dove non avrei voluto avanzare di un passo, se non fossi stata più che costretta.» (T. Meloni, Trasparenze dell’anima)

Trasparenze dell’anima di Tiziana Meloni prende avvio dalla riflessione della protagonista – nonché narratrice – sul suo presente, sul quale grava la sofferenza subìta durante la sua infanzia: l’abbandono di suo padre. Un evento tragico che ha condizionato la sua vita, che l’ha resa sempre più insicura e sfiduciata sia nei confronti delle persone, sia soprattutto nei confronti di se stessa: «Mi sembra di non avere posto per nient’altro che per una congerie di sogni, che probabilmente non realizzerò mai.»
Eppure un obiettivo riesce a raggiungerlo: quello di diventare psicoterapeuta. E anche da un punto di vista sentimentale scopre la capacità di poter amare, di saper amare nonostante la paura, nonostante i dubbi e le numerose perplessità che le pervadono la mente e che non esita a mettere nero su bianco, magari sperando di portarle a una risoluzione definitiva.
Sperando, anche, di poter modellare un mondo fatto su misura per lei, in cui solo le cose belle possono starci: l’amore incondizionato, la fiducia, la fedeltà, la lealtà, l’onestà e soprattutto il coraggio di prendere le redini della situazione e gestire la propria vita, piuttosto che lasciarsi trascinare dagli eventi aspettando (e sperando) che tutto si sistemi. Difatti,
«Mi chiedo se il mondo possa essere migliore, se esista un oltre, se si possa sconfinare dalle perdite, dalle disillusioni, dalla mancanza di sorpresa, dal senso di vuoto, dagli orizzonti chiusi, dai sensi unici, o se siamo solo minuscole parti di una dimensione in tale accelerazione che quando ci pensi è già troppo tardi.»
La narrazione vera e propria di tanto in tanto subisce un’interruzione, senza tuttavia compromettere la linearità del racconto – che, anzi, viene in siffatto modo corroborata – per lasciare il posto a una sorta di “caro diario”, sempre pronto ad accogliere le sue riflessioni e i suoi pensieri più profondi.
Giò è il suo chiodo fisso, è l’uomo che ama e con il quale vorrebbe stare. Giò è colui il quale può appagare il suo bisogno più profondo: quello di un amore vero, affinché possa edificare dentro di sé uno spazioso edificio fatto di armonia, lietezza, emozioni e sensazioni tanto preziose quanto ineffabili a parole.
Tuttavia, la donna è costretta a scontrarsi con il diverso approccio di Giò alla vita! Con quanta diversità di atteggiamenti Giò si comporta nei confronti delle cose! «Giò vive solo per vivere», «Giò è programmato per vivere l’attimo», ma lei no!
Le certezze di cui necessita non possono essere il frutto del caso, di decisioni prese repentinamente dopo tentennamenti e sospensioni che non fanno altro che ispessire il suo strato di insicurezze, facendola naufragare nel mare delle illazioni, delle congetture e delle percezioni che rendono tristi persino quei momenti che richiedono un po’ più di leggerezza («Felicità dell’adesso e vuoto del dopo scorrono su due binari paralleli»).
Il risultato? Dubbi che si aggiungono ad altri dubbi mai dissipati e destinati, al contrario, ad accentuarsi; dubbi che toccano l’acme quando il simulacro che le rimanda lo specchio non appare tanto frammentata, quanto piuttosto in balìa di un qualcosa di terribilmente vago e avvilentemente indefinito sul piano identitario, che appare per ciò stesso frammentato:
«Credo che siamo mille persone in una sola, che la nostra coscienza debba essere sempre pronta a svelare nuovi tasselli di noi stessi, nuove verità, senza paura di incontrare bui, vuoti o silenzi. Credo nella nostra capacità di cambiarci, di modificarci, che può mutare continuamente il nostro percorso esistenziale e il nostro più profondo modo di essere. sapessi quante volte mi capita di guardarmi allo specchio e domandarmi chi sono.»
C’era stato un tempo in cui la protagonista-narratrice si è sentita cittadina del mondo, parte del Tutto ed estasiata dalla fragranza dolce e confortevole che solo la famiglia può veramente trasmettere, ma non aveva mai pensato che un bel giorno quel Tutto avrebbe cominciato a sgretolarsi, per poi andare velocemente in frantumi. Una totalità detotalizzata, direbbe Sartre.
Ed è a causa di quel vuoto che suo padre le ha lasciato che la protagonista di Tiziana Meloni si costruisce una corazza: forte e resistente all’apparenza, ma così fragile quando Giò le si avvicina, così che la rabbia e il dolore si dissolvono, almeno temporaneamente, e lei capitola dinanzi alla potenza del sentimento d’amore.
Sì, perché tutti gli uomini che la psicoterapeuta idealizza, tutti gli uomini che lei immagina al suo fianco somigliano alla figura paterna e in tutti gli uomini cerca qualcosa che le ricordi quel padre che aveva preso l’infelice decisione (per lei e per sua madre) di lasciare la sua famiglia per costruirsene un’altra, in un altro luogo (il perché sarà un interrogativo costante e assillante che mai troverà risposta):
«Io sono scampata a un naufragio, sono una donna senza terra, senza radici, senza un padre che le abbia insegnato ad amarsi, ad avere stima di sé. Per qualche ragione che non mi spiego mi sto aprendo a te [riferito a Giò], anch’io senza conoscerti. Ho cercato per tutta la vita un uomo a cui mostrare la mia anima, un uomo che mi mostrasse la sua fino a farne una sola.»
Della medesima sospensione tra vita vissuta e vita ancora da vivere, tra realtà e finzione Giò ne è ugualmente vittima. Aggrovigliato anche lui al suo passato, incapace di tirarsi indietro, e di dire basta a una storia ormai finita, mosso dalla compassione, egli è il prototipo del finto macho.
È forte e tenace, trasmette sicurezza ed è persuaso che tutto, prima o poi, si sistemerà. È statico, si lascia trasportare dalla corrente talvolta impetuosa della vita, aspettando pazientemente, ma non senza soffrirne, di (ri)mettersi finalmente sui giusti binari.
Rimandare e procrastinare sono i suoi comandamenti primari (e forse gli unici), tanto da non cedere neppure quando viene messo alle strette: è incapace di passare all’azione anche quando il rischio di perdere la donna amata diventa sempre più concreto, reale.
Infatti Giò non si spinge oltre le promesse, la fermezza delle parole s’infrange contro il tentennamento dell’agire. Questa ostinazione a restare immobile se per la protagonista è fonte di rabbia e disperazione, per lui è – anzi sarà – la panacea a una situazione da troppo tempo stagnante.
Non sarà lui a dire addio al passato, non sarà lui a cambiare la direzione del vento, qualcun altro lo farà per lui, pagando le conseguenze di una vita che non ha saputo darle altro che dispiaceri. Ma alla fine…
Leggete il romanzo per scoprire se “tutti vissero felici e contenti”.
© Antonietta Florio