«Se fossi io che non riesco a concedermi di essere felice? Per paura, o perché preferisco crogiolarmi nell’autocommiserazione, o perché credo di non meritarmi niente di buono, o per qualche altra ragione. Ogni volta che mi capita qualcosa di bello mi ritrovo a pensare: chissà quanto durerà prima di finire male. E desidero quasi che il peggio arrivi presto, meglio prima che dopo, e se possibile subito, così almeno smetto di stare in ansia.» (S. Rooney, Dove sei, mondo bello)

Alice, Eileen, Felix e Simon, cos’hanno in comune i protagonisti di Dove sei, mondo bello di Sally Rooney? Anzitutto, l’età: tutti sono sulla soglia dei trent’anni. E, in secondo luogo, tutti e quattro cominciano a fare i conti con se stessi. Da siffatta introspezione la collettività non ne è espunta. Anzi.
Essa rappresenta piuttosto il dato inconfutabile da cui partire, talvolta distanziandosene e talvolta accettandone l’omologazione, perché se è vero che in un modo o nell’altro tutti siamo chiamati a scegliere, è altrettanto vero che prima o poi si deve scegliere se farne parte oppure restare al margine, se incatenarsi ad essa, e dunque accettare l’etichetta, oppure trascenderla, e con fare rousseauiano, passeggiare come sognatori solitari:
«nella mia più intima essenza io non sono altro che un prodotto della nostra cultura, nient’altro che una piccola bolla che occhieggia sull’orlo della nostra civiltà.»
Amicizia e soldi, arte, cultura e bellezza, modernizzazione e involuzione, piuttosto che civilizzazione sono per la maggior parte i temi su cui s’incentrano le conversazioni via e-mail di Alice e Eileen.
Amiche del cuore, le due sono accomunate dalla scrittura, ma se per l’una scrivere significa arricchirsi, giacché Alice è una scrittrice che gode di enorme successo, l’altra invece è la perfetta incarnazione di chi, pur impegnandosi, non fa (o crede di non fare) mai abbastanza. E difatti, Eileen combatte quotidianamente contro il demone del fallimento e, conseguentemente, dell’horror vacui:
«Mi sento davvero fallita, e per certi versi la mia vita è davvero insulsa, e le persone che si preoccupano di quello che mi accade sono pochissime. A volte trovare un senso è davvero dura, quando le cose che credevo significative si rivelano insignificanti e le persone che dovrebbero amarmi non mi amano.»
Onde ne deriva una condizione esistenziale frustrante e talora insostenibile, un malessere che coinvolge tutta la sua persona e non dà scampo. Come una pioggia torrenziale violenta e interminabile, questa insoddisfazione spazza via l’entusiasmo, la priva dell’energia necessaria per affrontare ogni giorno con fiducia e ottimismo, con il risultato di una sensazione di mancanza incolmabile.
Come facciamo, allora, ad essere d’accordo con Leibniz, per il quale viviamo “nel migliore dei mondi possibili”, e a non schierarci piuttosto con il Candide di Voltaire, che all’ottimismo del filosofo contrappone la spietatezza della realtà? Una volta, un poeta inglese di nome John Keats, scrisse: «Una cosa bella è una gioia per sempre».
Ma se riflettiamo approfonditamente sul presente, se guardandoci intorno non riusciamo a scorgere certezza alcuna, al di là della transitorietà delle cose stesse (relazioni, emozioni, lavoro), dove dobbiamo cercarla questa bellezza? Dove si nasconde? E soprattutto è, la bellezza, ancora possibile nel mondo di oggi? O, forse, dobbiamo ammettere una volta per tutte che «la nostra qualità di vita è in calo, e con lei la qualità dell’esperienza estetica cui abbiamo accesso»?
«Il presente è diventato discontinuo. Ogni giorno, per non dire ogni ora di ogni giorno, sostituisce e rende irrilevante il tempo trascorso, e gli avvenimenti delle nostre vite hanno senso soltanto in rapporto a una timeline di nuovi contenuti in costante aggiornamento.»
Qui la Rooney s’impelaga e ci fa riflettere ancora sul conflitto tra senso etico ed estetico, sulla contrapposizione tra chi fa l’esperienza del bello e chi è “interessato al bello”, al dualismo pirandelliano tra Vita e Forma o, per accogliere la pensée del filosofo contemporaneo Umberto Galimberti, tra essenza e apparenza. E, non da ultimo, mettendo in risalto due diversi temperamenti: la nostalgia per la cosiddetta “età dell’oro” e la sterilità, quale prodotto e conseguenza della “desertificazione del mondo moderno”.
Questa riflessione è parte integrante del romanzo, lo permea e ne sorregge l’architettura. Essa ha a che fare con l’attuazione della costruzione di senso. Ed è ancora Eileen a parlare in questi termini, facendosi promotrice della seguente linea di pensiero:
«E se il senso della vita sulla terra non fosse un eterno avanzamento verso un obiettivo imprecisato: la progettazione e produzione di tecnologie sempre più potenti, lo sviluppo di forme culturali sempre più complesse e astruse? E se queste cose crescessero e calassero semplicemente in modo naturale, come le maree, mentre il senso della vita rimanesse sempre lo stesso – semplicemente vivere e convivere coi propri simili?»
Cercare il senso della vita significa, quindi, trovare la chiave per essere felici. Ma, una volta di più, i personaggi di Dove sei, mondo bello sono costretti a leggersi dentro, a smantellare l’armamentario favolistico e a scendere a compromessi con la realtà che non sempre fa rima con semplicità e agevolezza.
Al contrario, spesse volte, sembra che la vita si allontani: «Perlopiù vivo la mia vita come se non stesse nemmeno accadendo»; o, peggio ancora, «sta un po’perdendo la voglia di vivere […] è la sua vita che detesta». Il tutto acuito dal pensiero, quasi una convinzione, di non meritare nulla.
Ed è sempre Eileen a esternare, quanto di più terribile e doloroso si cela nella parte che tendiamo a nascondere, persino a noi stessi, a trasformare in parole chiare e inequivocabili, tutto ciò che non abbiamo il coraggio di dire:
«Certe volte penso che sia una punizione, tipo che Dio mi stia punendo. O forse me la sto infliggendo da sola, non so. Perché ogni volta che sto bene anche solo per cinque minuti deve succedere qualcosa di brutto.»
Il risultato è una decentralizzazione dell’individuo, il quale, ad un certo punto, rifacendoci ancora a Luigi Pirandello, si vede vivere, subisce la vita e non si accorge, come suggerisce il filosofo di Königsberg, che “la bellezza sta nel fenomeno”.
Ma anche Simon si fa testimone dei nostri conflitti interiori e delle nostre inquietudini. Il ragazzo non solo fa i conti con se stesso e con la sua vita che, al pari degli altri, sembra essergli sfuggita di mano, ma in lui alberga un senso di colpa nei confronti dei genitori che lo opprime e lo amareggia. Vorrebbe essere qualcosa di più, regalare loro una qualche soddisfazione in più, ma, purtroppo anche lui deve accontentarsi. Per ora, almeno. In futuro, chissà. Eppure c’è una luce sempre accesa in lui e si chiama Fede.
Di tutt’altro spessore è Felix. Non appartiene al mondo della letteratura, né si occupa di politica e cose simili; è diverso dai suoi coetanei e conosce il lavoro duro del magazzino, l’inflessibilità e la rigidità che lo governano. Eppure non se ne lamenta. La vita è quella che è ed è inutile cercare un senso a tutto.
Naturalmente anche lui ha qualche speranza, qualche progetto, qualche sogno intrappolato chissà dove, ma non bisogna restare immersi nella dimensione onirica, in bilico tra la vita come la si immagina e per quella che invece è davvero. Meglio godersi l’istante, capire che nell’inferno della realtà c’è qualcosa che inferno non è. Calvino docet. E Alice lo traduce con queste parole:
«Ecco che nel mezzo di tutto, con il mondo messo com’è, l’umanità sull’orlo dell’estinzione, io mi ritrovo qui a scriverti un’altra mail a proposito di sesso e amicizia. C’è altro per cui valga la pena vivere?»
© Antonietta Florio