Michel Foucault, Discorso e verità nella Grecia antica

«Nella concezione greca della parresia non sembra esservi un problema circa l’acquisizione della verità, giacché il fatto di avere la verità è garantito dal possesso di certe qualità morali: quando qualcuno ha certe qualità morali, allora quella è la prova che egli ha l’accesso alla verità, e viceversa. Il «gioco parresiastico» presuppone che il parresiastes sia qualcuno che possiede le qualità morali che sono richieste; per prima cosa, conoscere la verità, e, secondo, comunicare tale verità agli altri.» (M. Foucault, Discorso e verità nella Grecia antica)

Discorso e verità nella Grecia antica è un saggio che raccoglie alcune lezioni tenute all’università di Berkeley da Michel Foucault nel 1983 e la questione centrale è la «problematizzazione del concetto di verità» che affonda le radici nelle tensioni etiche della società greca antica e segna l’inizio della filosofia che noi oggi conosciamo.

En passant, occorre sottolineare che il termine prima citato di “problematizzazione” significa, nell’analisi foucaultiana, comprendere perché un determinato campo di esperienze inizialmente non problematico sia diventato in seguito un “problema”. Onde ne deriva una relazione tra “la cosa che è problematizzata” e il “processo di problematizzazione”. E la verità comincia ad essere percepita come problema nella Grecia del V secolo a.C.

L’intento è, dunque, di costruire un’«ontologia dell’attualità», anche se col rischio che questa operazione di “presentificare” non sia altro che una riscrittura arbitraria del passato (la retrotopia di Bauman). Ad ogni modo, l’approccio foucaultiano di ricostruire la genealogia del soggetto moderno presuppone un percorso a tappe che va dal nosce te ipsum di delfica memoria, al “modifica te stesso”, per giungere infine al “governa te stesso”.

Le linee di questa evoluzione subiscono, per così dire, una reductio ad unum, poiché confluiscono in un solo concetto (anche se, come vedremo, è una praxis e non soltanto un elemento concettuale) che permea intimamente il presente testo: parresia e i suoi derivati, parresiastes e parresiazestai. Cosa vuol dire parresia? E chi è il parresiastes? È presto detto.

Anzitutto, Foucaut definisce la parresia, termine che appare per la prima volta nelle tragedie di Euripide, come «attività verbale in cui il parlante ha uno specifico rapporto con la verità attraverso la franchezza». Da qui, due conseguenze.

La prima è che dire la verità, parlare franco significa far uso della libertà e richiede coraggio; ma soprattutto parlare franco è considerato un «dovere per aiutare altre persone (o se stessi) a vivere meglio».

La seconda è che chi dice la verità, lo fa sempre rischiando di essere criticato e presuppone un ascensus dal basso verso l’alto (il filosofo critica il tiranno, l’allievo critica il maestro) e costui è il parresiastes:

«Colui che usa la parresia è riconosciuto per tale, e merita considerazione come parresiastes, solo se il fatto di dire la verità comporta per lui un rischio o un pericolo.»

Ciò vale in politica, nella fattispecie ateniese, dove la parresia è l’idealtipo della democrazia, oltre che requisito nel discorso pubblico (tenendo conto, però, del differimento rispetto all’ars oratoria e alla loquacità dell’athuroglossos) e vale ugualmente nelle relazioni interpersonali individuali.

In entrambi i casi, il soggetto s’impegna nella “cura di sé” (epimeleia eautou) e nello stesso modo in cui la philosophia è arte della vita (techne tou biou) avvia un processo educativo finalizzato a quella che Seneca chiama “la tranquillità dell’anima”. Infatti,

«non solo si presume che esse [le pratiche parresiastiche] forniscano all’individuo la conoscenza di sé, ma è questa conoscenza di sé che si suppone possa garantire l’accesso alla verità e a ulteriori conoscenze.»

Esaminando la parresia nello spazio di poche centinaia di pagine, Michel Foucault evidenzia una questione essenziale, sia che si tratti delle sei tragedie di Euripide (da Le fenicie a Oreste), sia che si richiami alla Repubblica e alle Leggi di Platone, passando per Aristotele e Plutarco, per le sette cinica, epicurea e stoica. Il filosofo mette cioè in risalto che la parresia richiede qualità morali e sociali e il discorso parresiastico mette in luce

«la verità della vita di una persona, cioè il tipo di relazione che essa ha con la verità […] e come questa relazione è ontologicamente ed eticamente manifesta nella sua vita.»

In definitiva, la verità è uno strumento di autotrasformazione ed è capace di dirla soltanto colui che è libero da qualsivoglia condizionamento e forma di dominazione.

© Antonietta Florio

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