Dalmazio Frau, Senza arte né parte

«L’Arte è e deve essere parte integrante e fondamentale di qualunque popolo. Perché un popolo senza cultura né arte non sarà nemmeno in grado di utilizzare nel modo migliore tutti i vantaggi che gli deriveranno dal proprio benessere materiale. Senza spirito la materia è morta e come un golem si ammira soltanto quando gli viene insufflato il nome divino che, in questo caso, è: Bellezza.» (D. Frau, Senza arte né parte)

«C’erano una volta gli Artisti. O Artefici. C’erano dall’alba del Tempo quando l’Uomo sollevava il viso al cielo e vedeva le stelle sul suo capo». Sembra una favola quella che Dalmazio Frau racconta in Senza arte né parte.

E se da un lato, e soltanto in parte, lo è, dall’altro si stacca da quella che è la tradizione, in quanto lo sguardo di chi scrive è ben piantato nella realtà, fossilizzato in essa, ma intriso di un forte pathos nostalgico, raccontando una favola dai contorni foschi, tetri, mesti.

In questa favola dell’orrore non c’è un lieto fine, ma soltanto – come asserisce Bauman – “l’incertezza della certezza”; non c’è più “il tempo del sogno”, ma soltanto un tempo meccanicizzato; non ci sono più l’emozione e il brio che le grandi opere del passato suscitavano nell’anima, perché l’arte moderna e contemporanea non può essere paragonata alle succitate opere, né tantomeno può sperare di eguagliarle.

Gli articoli raccolti in questo volume rispondono a due interrogativi di fondo: “Che cos’è Arte?” e “Ci sono Artisti oggi?”. L’impiego della A iniziale maiuscola non è casuale, ma ha una precisa finalità: funge da spartiacque tra il presente e il passato, laddove il consumismo becero dell’arte moderna ha abolito la vitalità del sentimento dell’arte antica.

«L’Arte è sempre un porre Ordine nel Caos primordiale, non liberare le proprie pulsioni più o meno represse come si vorrebbe oggi.»

Per cui se è vero che l’Arte è indefinibile (Ambrose Bierce), non è meno vero che essa si colora di innumerevoli significati, tracciando linee interpretative diverse quante sono le prospettive.

Né può restare sottaciuto il fatto che l’espressione artistica parli in modo immediato e spontaneo all’anima. È la cosiddetta sensibilità estetica che coglie non la Bellezza, bensì il significativo e il comunicativo:

«l’Arte, senza altri intermediari che non sé stessa, supporto dell’influenza spirituale divina può essere “medico dell’anima”, in “grazia” di una Virtù superiore che liberamente fluisce dal Divino all’Umano trasformando quest’uomo in ciò che realmente egli è.»

Eccoci giunti al fil rouge che collega intimamente questi scritti di Dalmazio Frau. Essi (ci) consentono di viaggiare nel mondo dell’arte dal Medio Evo fino al Novecento, rilevando nella tappa della modernità criticità e drammaticità.

Quello dell’Autore è un richiamo alla Bellezza, l’equilibrio e l’armonia dell’Arte, un invito a riscoprire la sua vera essenza, la sua ragione d’essere e recuperare la dimensione del sacro (perché un’Arte senza l’Assoluto non è tale) del magico e del fantastico per sondare il mistero che si cela tra le sue linee:

«L’immaginazione artistica è il mezzo che ci consente di compiere il più grande, e difficile, tra tutti i viaggi attraverso il Tempo e lo Spazio; è il “viaggiare senza muoversi”, l’essere contemporaneamente di qua e di là dall’immagine, perché Tempo e Spazio sono stati annullati dall’Arte più vera, quella del Meraviglioso.»

Dappertutto – nel testo – viene sottolineato lo stato di decadenza in cui versa l’Arte moderna e contemporanea, sulla quale gravano come la spada di Damocle l’impoverimento di contenuti e la carenza di un pensiero originale. Risultato: sterilità della comunicazione. Difatti, ciò che oggigiorno rende grande un’opera d’arte è la sua valutazione in denaro, la brama e l’egotismo dell’artista moderno di apporre la propria firma in calce al quadro o alla scultura.

Ed ecco l’affondo di Frau: si pensi, ad esempio, alle visite a pagamento nei musei, dove la libertà di godimento è in certo modo soppiantato dalla costrizione; oppure, ai libri nei supermercati, «decaduti al rango di merce qualsiasi».

Sembra di sentir parlare il Jed Martin di Houellebecq («ciò che spinge le persone a superare se stesse è ancora il puro e semplice bisogno di denaro») o, anche (e forse per eccesso), il Conte di Montecristo, per il quale «a questo mondo per prosperare non basta essere un uomo onesto».

Onde ne deriva che «L’Arte non è più al servizio dell’uomo, affinché egli possa goderne, ma viene nascosta al bene dell’umanità». Non è più l’ispirazione a muovere la mano dell’artista, ma il bisogno di un tornaconto personale ed economico, vuoi per aumentare l’autostima, vuoi perché è il mondo odierno ad essere così congegnato.

Allora Riccardo Molteni ha ragione quando afferma che il “dio quattrino” impedisce di fare ciò che si vuole, per fare invece ciò che gli altri desiderano.

E a questo punto il consiglio dell’Autore è chiaro:

«Correte via, in cerca di un luogo dove vi sia rispetto per chi sa fare, dove vi siano civiltà e amore per la Bellezza, dove il nostro valore si ponga in bilico perfetto sulla punta di un pennello e non sull’essere “clienti” con il ginocchio sporco per il continuo genuflettersi.»

© Antonietta Florio

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