Martin Heidegger, Che cos’è metafisica?

«In quanto esiste l’uomo, accade in certo modo il filosofare. Ciò che noi chiamiamo filosofia non è che il mettere in moto la metafisica, attraverso la quale la filosofia giunge a sé stessa e ai suoi compiti espliciti. La filosofia si mette in moto soltanto attraverso un particolare salto della propria esistenza dentro le possibilità fondamentali dell’esserci nella sua totalità.» (M. Heidegger, Che cos’è metafisica?)

Was ist Metaphysik? (Che cos’è metafisica?) è la lezione inaugurale con cui Martin Heidegger celebra il suo insediamento ufficiale all’università di Friburgo, succedendo a Edmund Husserl. Il titolo della Prolusione chiarifica il topic su cui il filosofo si concentrerà e che prevede un domandare metafisico, poi un tentativo di elaborazione della domanda, infine un tentativo di risposta.

Il problema metafisico che Heidegger qui propone è da leggersi come critica alla filosofia husserliana. Mentre questa conserva una carattere trascendental-fenomenologico, quella heideggeriana è trascendental-ontologica, riprendendo dunque il concetto ontologico della filosofia di derivazione aristotelica.

Ma c’è di più. Husserl sostiene che il passaggio da un atteggiamento naturale a uno filosofico avviene mediante l’epoché, ovverosia una condizione di sospensione della visione del mondo che consente al filosofo di scorgere le operazioni segrete che costituiscono la nostra esperienza nel mondo e determinano per conseguenza la nostra Weltanschauung.

Heidegger, al contrario, parla di una conversione, poiché la filosofia non è una professione (Beruf), ma una vocazione «una scelta di vita radicale», una «conversione dell’anima», per cui a seguito di un profondo turbamento l’uomo s’interroga sul suo stesso essere. Allora, l’interrogazione filosofica

«sopraggiunge per un turbamento e un coinvolgimento profondi dell’esserci che si manifestano in stati d’animo fondamentali, ontologicamente relativi, la cui peculiarità sta nell’emergere senza preavviso».

La questione fondamentale del domandare metafisico non è indagata storiograficamente, ma riguarda l’esserci (Dasein) dell’uomo, il quale, domandando appunto, è coinvolto nella domanda, è cioè posto in questione. In tal senso il suo essere è coinvolto a un livello profondo. La metafisica è la storia della verità sull’ente, ma va oltre l’ente, che resta un fondamento ignoto.

La domanda metafisica abbraccia la totalità del problema metafisico e ciò che viene indagato è l’ente «e sennò niente». La scienza è interessata unicamente all’ente, il Niente è nullità, una fantasticheria; eppure, osserva Heidegger, la scienza per esprimere la sua essenza chiama in aiuto questo Niente, ragion per cui «ciò che rifiuta è ad un tempo ciò che essa reclama».

Ma che cos’è questo Niente? Bollandolo come “nullità”, come “ciò che non c’è” o come annullamento dell’ente, significa rinunciare a pensare. Bisogna andare più a fondo, ed ecco che «il Niente è la negazione dell’universalità dell’ente, il puro e semplice Non-ente». Più precisamente:

«Il Niente è la negazione completa della totalità dell’ente. Questa caratterizzazione del Niente non punta in fondo l’indice nella direzione da cui solamente esso può venirci incontro? Occorre che sia prima data la totalità dell’ente, affinché questa possa cadere semplicemente come tale sotto la negazione, nella quale poi il Niente stesso dovrebbe annunciarsi.»

Entrano qui in gioco i sentimenti che nascondono il Niente che cerchiamo. Ma vi è uno stato d’animo che ci pone di fronte al nulla, anche se raramente e per pochi istanti. Si tratta dell’angoscia (Angst), «uno stato d’animo ontologicamente relativo» che differisce dalla paura (che è sempre paura per… paura di qualcosa di determinato, mentre l’angoscia è «l’essenziale impossibilità dell’indeterminatezza»), che allontana l’uomo dall’ente e quanto più questo si dilegua, tanto più il Niente incombe:

«L’angoscia rivela il Niente. Noi «siamo sospesi» nell’angoscia. O meglio, è l’angoscia che ci lascia sospesi, perché fa dileguare l’ente nella sua totalità. Ciò implica che noi stessi, questi esseri umani che siamo, in mezzo all’ente ci sentiamo dileguare con esso.»

Nell’angoscia, l’ente vacilla, ma non viene annientato; in essa e per suo tramite il Niente si manifesta. L’essenza nientificante del Niente consiste nel portare l’esserci davanti all’ente, essendo che l’esserci proviene dal Niente che è manifesto. Esserci vuol dire trovarsi immersi nel Niente (qui Heidegger definisce l’uomo un luogotenente del Niente), trascendere il Niente, essere oltre l’ente nella sua totalità:

«Il Niente non è un oggetto, né in generale un ente. Il Niente non si presenta per sé, né accanto all’ente a cui per così dire inerisce. Il Niente è ciò che rende possibile la manifestatezza dell’ente come tale per l’esserci umano. Il Niente non dà solo il concetto opposto a quello di ente, ma appartiene originariamente all’essere essenziale stesso. Nell’essere dell’ente avviene il nientificare del Niente.»

Ecco allora che la domanda “che cos’è il niente?” implica un andare oltre l’ente (tale è la metafisica), per ritornare a comprenderlo nella sua totalità. Ne consegue che il niente appartiene all’essere dell’ente e questo salto della propria esistenza nelle possibilità fondamentali dell’esserci nella sua totalità è la filosofia che torna alla domanda fondamentale della metafisica, già teorizzata in passato dal filosofo delle monadi, e rimasta insoluta: “perché l’ente e non piuttosto il niente?”.

La metafisica non perviene ad una risposta perché essa si interroga su ciò che l’esistente è, ma non sull’essere stesso, «si attiene all’ente senza volgersi all’essere in quanto essere» e non pensa l’essere nella sua essenza svelante, cioè nella sua verità. Ma

«Ben altro è in gioco nell’avvento o nell’assenza della verità dell’essere: non la costituzione della filosofia, né semplicemente la filosofia stessa, ma la vicinanza o la lontananza di ciò da cui la filosofia, come pensiero che rappresenta l’ente in quanto tale, riceve la sua essenza e la sua necessità.»

 © Antonietta Florio

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