«La vita è una questione di giuste proporzioni. A un certo punto deve succedere. O sei illuminato, o non lo sei. O sei innamorato, o non lo sei. O sei pronto, o non lo sei. […] Questo è ciò che siamo. Questa è la sostanza di cui siamo fatti: sangue, furore, detriti di sogni al confine tra sonno e veglia.» (F. Bacà, Nova)

Nova di Fabio Bacà è un romanzo catalizzato su Davide Ricci, neurochirurgo lucchese, marito di Barbara, logopedista e ferrea vegana, e padre di Tommaso, un adolescente appassionato di astronomia, alle prese con le prime esperienze sentimentali e i primi istinti sessuali. Il termine “istinto” non è adoperato casualmente, dal momento che nel romanzo è una tematica fondamentale e ha a che fare con la violenza, connaturata all’uomo.
Difatti, attraverso Davide, il cui segno particolare – per così dire – è il pensiero della morte, la storia viene inizialmente raccontata e presentata come una commedia leggera e ironica, fino a quando un evento, inatteso e imprevisto, oltre che impensabile, provocherà disequilibrio dentro e fuori i personaggi, accorgendosi che «il problema è che abbiamo perso contatto con qualcosa di essenziale dentro di noi».
Ciò che mette propriamente in moto la narrazione, e che coinvolge l’intera famiglia Ricci, anche se è Davide il personaggio che farà principalmente i conti con se stesso e con la sua parte più recondita, è una sorta di querelle all’interno di un ristorante.
Un ubriaco che molesta Barbara, noncurante della presenza di Tommaso, che potrebbe dare adito a una scena violenta, finisce in due modi: l’arrivo di Diego che difende la donna (mentre Davide si camuffa – scopriremo poi perché – in mezzo alla gente) e il dominio della violenza.
La predisposizione al bene da parte di Davide, il quale crede essa sia alla base di tutta l’umanità (sebbene la piramide possegga ai vari gradi successivi crudeltà, egoismo, viltà, eroismo e altre qualità) è messa alla prova da Giorgio Manganelli, il suo primario, e da Massimo Lenci, il vicino di casa proprietario di un launch bar.
Esasperante l’uno, provocatore l’altro, sono i primi che inducono Davide, incapace di reagire e «inabile alla violenza» e che di fronte ad essa ha addirittura una reazione paralitica, a porsi dei quesiti, poggianti su un sostrato inconfutabile:
«Che fosse un vigliacco era ormai assodato, ma poi? Ero un buon padre? Un buon marito? Un buon professionista? Non ne era più tanto sicuro. Quali erano le sue virtù? […] Era un debole. Una larva.»
A questo punto entra in scena il già citato Diego, un altro personaggio-chiave che svolgerà un ruolo importante per Davide, tirandolo fuori dalla sua comfort zone e mettendolo di fronte a una realtà completamente diversa, così che i pensieri ossessivi sulla morte si tramuteranno in qualcosa d’altro: in un occasione di rinascita:
«E questo è un bene, perché allora potresti volgere lo sguardo altrove: e se lo farai davvero, se riuscirai a distogliere l’attenzione per il tempo sufficiente a capire che c’è altro all’infuori del tuo volto, del tuo corpo, della tua personalità, del tuo lavoro, dei tuoi amici e dell’insignificante porzione di tempo che il caso ti ha concesso, un giorno potresti ritrovarti a fissare qualcosa di meglio.»
Ed ecco che comincia il percorso di crescita spirituale, se vogliamo, del neurochirurgo sotto le direttive del maestro zen. Un unico dato di fatto:
«C’è un Potere dentro di noi. […] la violenza è un potere ambiguo, che ha bisogno di essere controllato: se non lo domini, dominerà te. E non puoi controllare qualcosa che neghi a priori. Non puoi gestire una parte di te che rifiuti persino di concepire. Per convivere con il Potere devi nutrirlo e addomesticarlo. […] è inutile tentare di comprimere la tua indole fino a ridurla a un innocuo accessorio della way of life occidentale. Altrimenti la violenza riemergerà, e nel momento peggiore. […] C’è qualcosa dentro di noi.»
Questo qualcosa, questo Potere deve dunque essere gestito e poiché la vita è una questione di giuste proporzioni, quando la violenza è (se vi sono dei casi in cui lo è) giustificata?
Si possono adottare due atteggiamenti: o farne uso per eliminare rapidamente i problemi (con il rischio non chimerico di incappare in altre problematiche di altra natura) – e dunque essere dominati da essa -; oppure dominarla, gestirla, controllarla. Dopotutto è una questione di giuste proporzioni.
Ma per Davide entrambe le opzioni sono ugualmente inconcepibili. Anche se, grazie a Diego, scoprirà che il baluardo della mitezza non è altro che un modo subdolo di celare, per timore, ciò che è davvero, di fingere che la violenza è disumana ma indissolubilmente parte dell’essere umano:
«Puoi immaginare qualcosa di più stupido che credere che il mondo non ti tocchi solo perché ti rifiuti di ammettere che possa?»
«La verità è che abbiamo dimenticato chi siamo» o, come nel caso di Davide, evitiamo di guardarci davvero e ci concentriamo su dettagli anodini, particolari inessenziali, ci crogioliamo in banali fissazioni per evitare di affrontare la realtà traumatica, di attraversare la verità.
E difatti comprendere e (ri)scoprire chi siamo implica un contatto con i nostri istinti più profondi, una connessione con gli strati più intimi di noi che non può essere recisa.
Da leggere… con dizionario a portata di mano!
© Antonietta Florio