Silva Ganzitti, La guerra di Lia

«Faticare non sarebbe più bastato, vivere e soffrire il quotidiano non sarebbe più stato declinato al futuro che mia madre e mio padre avevano sperato e previsto. Contavano, adesso, solo gli eventi politici e militari, le battaglie e i vincitori. A quelli avrebbero dovuto guardare, dirigere i loro sforzi, compiere le loro scelte. Niente sarebbe stato più come prima.» (S. Ganzitti, La guerra di Lia)

Buja (Friuli-Venezia Giulia), Seconda guerra mondiale. Lia, «nata con la camicia», è la secondogenita di Bartolo e Tina; non si accorge subito dei cambiamenti della guerra, ma immersa nella natura – luogo privilegiato delle sue riflessioni, dei suoi sogni e delle sue speranze – si ravvede che quell’immensa distesa sarebbe ben presto diventata «uno scenario sul quale giocarsi la vita». Si apre così La guerra di Lia di Silva Ganzitti.

L’Autrice ci trasporta delicatamente nel mondo interno ed esterno di Lia, richiamando alla memoria un pezzo di Storia che non deve essere dimenticato, ma recuperato e tramandato, poiché «l’oblio è la vera morte».

A completare il quadro è il delinearsi del profilo della famiglia che, radunata intorno al fogolâr, tenta di esorcizzare, raccontando storie, l’angoscia attanagliante dei dubbi. Dalle apprensioni materne di Tina, che sempre confida nella Divina Provvidenza, alle indecisioni del padre Bartolo su quale posizione prendere e di chi fidarsi, Silva Ganzitti non si esima dal considerare la popolazione friulana che – nonostante la chiamata alle armi e il tragico peggioramento della situazione sociale ed economica – continua a dedicarsi anima e corpo al lavoro nei campi, come fosse un antidoto al veleno dell’incertezza:

«Lavoravano perché quella era la loro vita e non sapevano fare altro e lo facevano con la passione di chi sulla terra ci è nato e la conosce e la capisce.»

Anche Lia, sdoppiandosi in un certo qual modo, lavora soprattutto d’immaginazione, perdendosi nei labirinti boschivi e assaporando la purezza dell’aria, ma nel contempo non cessa di porsi interrogativi e di guardare ogni cosa in modo diverso:

«Comprendo che il vuoto è pieno di domande. Dove, chi, perché. Sono le stesse che mi faccio anche io, ma in silenzio. Non ho il coraggio di dar loro voce per il timore di avere risposte scontate, di scoprire che è tutto un sogno.»

È una natura benigna e onnipresente (insieme alla religione) quella che soccorre Lia, che placa i suoi tormenti e ne affievolisce i timori, gli stessi che proviamo noi lettori pagina dopo pagina, grazie anche alla scelta della narrazione in prima persona.

Alla miseria materiale segue il degrado morale con le brutture di una quotidianità che uccide qualsivoglia speranza, disintegra l’aurea cristallina dei sogni, unica via di fuga, e lascia spazio soltanto alla turpitudine della realtà, esacerbata dall’arrivo dei Kazàc (cosacchi), che perpetrano una violenza tale da avvizzire perfino la terra, che piegata al volere di quei bruti va perdendo la sua bellezza sino ad allora incontaminata.

La libertà di tutti è messa a repentaglio. Eppure, nonostante l’oscurità, una luce resta accesa; nonostante l’horror vacui, l’afflato per il futuro non viene meno:

«[…] non c’è più vita nelle lunghe distese sotto un cielo vuoto di luna, non c’è vita nel silenzio violato di una natura che si sfalda e svanisce.»

E anche la bolla in cui “l’altra Lia” si nasconde per vivere una vita parallela svolazzando sulle nubi bianche della leggerezza e della spensieratezza si dissolve. Restano soltanto i ricordi e il bisogno conseguente di (ri)costruire la pace per poi ricominciare, sia pure con mille dubbi e paure.

Un’esortazione a non dimenticare, un tentativo di eternizzare i racconti veri affinché possano essere conosciuti e tramandati per conoscere le proprie radici e averne consapevolezza, un’occasione per apprendere qualcosa in più di quegli anni. Questo è l’auspicio vivo e sentito dell’Autrice. Tutto questo è La guerra di Lia.

© Antonietta Florio

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