«La sera verrà e il sole al tramonto porterà tra le nubi i segnali di bel tempo che tanto aspettavi e i colori della tregua, intensi e violenti sopra un cielo irreale attraversato da stormi di gabbiani chiassosi. Se vuoi potrai trovarci vederci l’eterna lotta tra bene e male, tra speranza e rassegnazione; ma non riguarda più la mia scienza, rispetto la quale oggi sono andato oltre.» (R. Maltoni, La perdita della lettera R. Racconti più o meno filosofici in tre parti)

Dubbi e certezze che da sempre caratterizzano l’agire dell’uomo sono il segno distintivo e trait d’union dell’antologia di Renzo Maltoni, La perdita della lettera R. Racconti più o meno filosofici in tre parti, ognuna delle quali è preceduta da una nota poetica introduttiva.
In una dimensione temporale che si alterna tra passato, presente e futuro e in cui si aggirano ora personaggi veri, ora frutto dell’immaginazione, ora idealisti e ingenui, ora opportunisti e scaltri, e persino oggetti che prendono vita, senza tuttavia scendere nella banalità, i racconti di Maltoni, «senza capo né coda», hanno diverse tonalità, sfociano in diversi generi, dal drammatico al comico, all’assurdo e viaggiano sul binario della realtà e della surrealtà, a partire dalla Prefazione.
La prima parte si apre con una sorta di invocazione alla musa del sapere. Se il sapere si acquisisce per mezzo delle domande, se l’estasi della conoscenza si raggiunge per mezzo di interrogativi, allora viene spontaneo chiedersi Chi ha inventato il punto interrogativo?, questo «grazioso ricciolo avvolto in senso antiorario che sovrasta un punto»?
La discettazione andrebbe avanti con l’apparizione di un monaco copista del Medioevo, il quale ebbe una duplice intuizione. Da un lato, e in primo luogo, il punto interrogativo rende certo il dubbio e, cartesianamente, «Il dubbio è l’inizio della conoscenza». Eppure, Un cacciatore di materia oscura avrebbe di che obiettare: «Più si conosce, meno si sa; paradossalmente indaghiamo lo spazio per aprire abissi di ignoranza».
Dall’altro lato, il suddetto simbolo potrebbe aiutare a fare chiarezza nelle relazioni interpersonali. Specie quella complicata dei due protagonisti del racconto Il rumore delle pagine sfogliate, i quali si amano perdutamente «di un amore paziente, non passionale, ma costante, che non vuole sconvolgere l’altrui esistenza» e l’unico contatto instaurato è attraverso le pagine dei libri che meglio li esprimono:
«Immaginate […] come poteva essere l’incontro di due solitudini, a quali stratagemmi doveva ricorrere l’istinto di conoscersi e amarsi per superare la barriera del silenzio. […] Qualunque sentimento, qualunque concetto che trova la porta della voce non è tuo, già è stato scritto, chissà quante volte, chissà in quanti modi diversi, tuti più efficaci del tuo, in tutte le epoche della storia.»
Altrove invece, la lettera fa da tramite tra la nostalgia del passato e la speranza di un futuro da costruire insieme, e perciò carico di amore e di aspettative. Quello stesso amore che viene dichiarato con la scritta “ti amo” sulla panchina; ma se per l’autore del gesto è uno sprofondare Nel vortice della purezza e di un innocente candore, per la pubblica opinione è motivo di scherno e indignazione (Quando scrissi t’amo sulla panchina al parco).
Alla storia terrena succede la descrizione della vita post mortem di Giovanni de’ Tolomei, il quale libero ormai dai tormenti della carne, certo di avere un posto in Paradiso, si trova invece nell’Inferno.
Destino o caso? Al casinò di Monod, in Venticinque, rosso, dispari, uno scienziato e filosofo s’impegna, attraverso la tecnologia, nel dimostrare che il caso non esiste. Viene però ammonito:
«Lei ha toccato qualcosa di più importante che sta alla base della nostra stessa società e del vivere civile. Mettere in dubbio il Caso, dimostrarne l’inesistenza, significherebbe sottrarre all’uomo quel rassicurante margine di incertezza che gli dà fiducia nella forza della sua intelligenza. Se per ogni errore non si potesse invocare il Caso come alibi o scarico della propria responsabilità, chi mai avrebbe il coraggio di affrontare qualunque impresa con un sia pur minimo margine di rischio?»
Ma cosa succederebbe se un virus causasse la perdita della lettera R, da cui il titolo dell’intera raccolta? La letteratura sarebbe da riscrivere, la vita degli uomini da riformare e, in definitiva, “il mondo sarebbe meno sensuale e più infelice”. Nulla cambierebbe per il musicista de Un inno per l’Unione Europea.
Ipoacusico, e per ciò stesso immune al fascino e all’illusione delle parole, Ludovico – questo il suo nome – è spaventato, vedendo il suo futuro gravemente compromesso, salvo poi capire che la musica si ascolta con l’orecchio della memoria e si compone con il cuore e con l’anima:
«Dalla sordità, si può ripartire per scrivere pagine nuove della musica, dove la composizione non sarà contaminata e distratta dall’ascolto acustico, ma sarà guidata dal solo sentire interiore, dall’immaginazione della mente. La musica […] la sente porta dentro di sé.»
Prima di perdere la lettera R, lettori, affrettatevi a procurarvi il libro!
© Antonietta Florio