Georges Simenon, Il piccolo libraio di Archangelsk

«Il sentimento che prevaleva sugli altri non era il timore, ma la delusione; eppure non aveva mai preteso nulla dalla gente, si era accontentato di vivere nel suo cantuccio con quanta più umiltà possibile.»(G. Simenon, Il piccolo libraio di Archangelsk)

Jonas Milk, Il piccolo libraio di Archangelsk di Georges Simenon, è un ebreo, naturalizzato francese, alle prese con la scomparsa della moglie Gina. Di questa sparizione, «il signor Jonas», come tutti lo chiamano nella Place du Vieux-Marché – dove si svolge la storia – non ne sa nulla. Di due cose è certo: del suo ritorno e del perdono, perché

«Lui le perdonava tutto. Le aveva sempre perdonato tutto – e la perdonava anche adesso. Che diritto aveva di pretendere qualcosa da lei?»

Ciononostante, per un qualche motivo, si sente colpevole di quanto accaduto. Ma se da un lato è sicuro che Gina tornerà prima di quanto immagini, dall’altro ciò non gli impedisce di costruire un castello di menzogne, sia con gli amici (?) sia con la famiglia di lei.

E quanto più le bugie si moltiplicano, facendosi tortuose e inestricabili, tanto più esse fungono da deterrente per un’impeccabile analisi introspettiva, un pungente travaglio psicologico che affonda le radici nella sua infanzia culminando in un’incertezza a cui Jonas troverà una soluzione nel finale amaramente sorprendente.

Due i nuclei tematici principali: la posizione di Jonas in società e come viene da essa considerato e la vita coniugale, cui si aggiunge il libertino modus vivendi di Gina. In mezzo la presa di coscienza di Jonas che «soltanto ora si accorgeva di aver vissuto senza preoccuparsi di ciò che avveniva intorno a lui», come se una barriera lo separasse dal mondo esterno.

E quel mondo ha le fosche tinte del dubbio, del sospetto e, non da ultimo, della diversità, che nessuno gli ha mai fatto pesare, nascosta sotto una spessa coltre di sorrisi compiacenti e di connivenza, ma che emerge nel momento meno opportuno e più insperato.

Infatti, è proprio quando Gina sparisce senza lasciare traccia e senza essere vista da nessuno, che al piccolo libraio di Archangelsk gli si palesa la terribile e drammatica realtà:

«Ora aveva aperto gli occhi, e certi particolari ai quali non aveva dato importanza gli ritornavano alla memoria. Si rendeva conto, finalmente, di essere uno straniero, un ebreo, un solitario, un uomo venuto dall’altro capo del mondo per annidarsi come un parassita nella carne del Vieux-Marché.»

Fino ad allora, Jonas ha creduto di essere riuscito finalmente a trovare il suo equilibrio, il suo posto nel mondo. Non chiede la felicità, ma la tranquillità. Ed è ciò che offre a Gina quando le propone di diventare sua moglie, perché «era troppo umile per illudersi di poterle offrire altro».

Il matrimonio riempie il vuoto che egli avverte sin da quando è arrivato in Francia, dopo aver lasciato la Russia all’epoca della Rivoluzione e non aver più avuto notizie della famiglia.

Ma quel vuoto diventa una voragine quando si accorge che tutti, i famigliari di Gina compresi, sospettano di lui ed è questa circostanza a provare, una volta di più che «in un certo senso anche lui era figlio del quartiere. [Ma] Non del tutto. Non proprio come gli altri».

Era allora e lo è ora un invitato, uno straniero, un solitario, reduce da un altro mondo. Al verificarsi di un accadimento inspiegabile sarebbe stato del tutto naturale essere il sospettato numero uno. Anzi, l’unico.

«Davvero a qualcuno, anche a una sola persona, era passata per la testa l’idea che lui si fosse sbarazzato di Gina?»

Perciò finisce col sentirsi sempre più a disagio («Non solo si sentiva a disagio in casa sua, ma si sentiva a disagio nella sua pelle»), sempre più amareggiato, disorientato e sconfitto al punto da non avere neppure la forza di riconciliarsi con se stesso, di non sapere dove e a chi aggrapparsi.

© Antonietta Florio

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