Alfredo Roncuzzi, Vita e tempi del Cardinal Fabrizio Ruffo

«La figura del Cardinale era come una leggenda di giorni oscuri, luminosa nei ricordi dei combattenti sanfedisti, perversa nelle calunnie dei vecchi indomiti giacobini. Molti dei quali erano proprio stati salvati dal suo intervento.» (A. Roncuzzi, Vita e tempi del Cardinal Fabrizio Ruffo)

In Vita e tempi del Cardinal Fabrizio Ruffo, Alfredo Roncuzzi descrive la società di fine Settecento, parla dell’età napoleonica e individua le cause della decadenza dell’Ancien Régime nel giansenismo e nel regalismo, offrendo un giudizio «sereno e distaccato» sulla personalità del prelato Ruffo, nipote di Tommaso Ruffo, decano del Sacro Collegio.

Il saggio storico-biografico prende le mosse dal mese di maggio 1796, quando Napoleone Bonaparte entra in Italia per eseguire fedelmente gli ordini del Direttorio francese di «conquistare, spogliare, inviare in Francia»; ergo, prosegue con le rivolte che in quegli anni interessano molte città italiane (e non):

«La ribellione, quasi sempre, nasce da una necessità di difesa elementare. Per vivere, o per sopravvivere, la gente s’arma, lotta, fugge, s’apposta, si stringe in banda, trova un capo, dà la caccia a tutto quanto è o rappresenta la causa di quell’enorme disperazione.»

Dopodiché il Roncuzzi recalcitra di qualche anno, e precisamente al 1744, anno di nascita di Fabrizio Ruffo. Filosofia, fisica, economia pubblica, religione, tanti e ampi sono gli interessi educativi e culturali del Ruffo, che «sa trattar di spada e d’affari», ma l’incertezza, sua auriga, lo rinchiude a lungo nella gabbia dell’attesa.

Un’attesa che tuttavia sarà caratterizzata da un certo dinamismo. Egli, infatti, conosce il variegato e piacevole mondo romano «nei suoi splendori e nelle sue decadenze», e lì cerca di farsi spazio:

«[Roma] conserva dell’antico l’intraprendenza allo scontento che la fa ribelle all’ordine, la bramosia del godimento, dell’imprevisto scaduto allo spettacolo qualsiasi, che la muove per le strade e per le piazze a cercar feste e ciarlatani; ma ha, di migliorato, il senso di una civiltà grossolanamente sorbita che esplode in atti generosi o in manifestazioni commosse.»

Quando l’amico Angelo Braschi diventa papa con il nome di Pio VI, il Ruffo viene nominato Tesoriere generale e parte alla volta di Palermo, poi della natìa Calabria, di Napoli per la riconquista del Regno, e poi torna a Roma, dove mette in atto una serie di riforme finanziarie, fiscali ed economiche, dimostrando di avere idee chiare e propositi fermi, fra cui: assicurare la coltivazione e il benessere stabile dei lavoratori.

La personalità del Cardinale Ruffo vien fuori parallelamente agli eventi storici e culturali della fine del Settecento, in un continuo e infaticabile peregrinare da una città all’altra, da una nazione all’altra, e in cui si vanno sempre più contrapponendo due fazioni: le une che si battono per il progresso; le altre, più tradizionaliste, che si battono per la difesa dei princìpi religiosi e sociali.

Il conflitto tra austriaci e piemontesi, le campagne italiane del generale Bonaparte, la Rivoluzione Francese, la fine della Repubblica napoletana, e poi l’avvento della massoneria, la vita nelle corti sono argomenti trattati con dovizia di particolari dal carlista Roncuzzi, che ci fa penetrare in questa fetta di turbolenta storia universale e ci fa vedere cosa accade dietro le quinte, ci porta all’interno degli ambienti politici ed ecclesiastici e, non da ultimo, ci fa imbattere nelle complessità che li caratterizzano.

In questa operazione di scavo dal taglio recisamente storico e di raffinata caratura intellettuale, l’Autore delinea il percorso seguito dal cardinale che ha tentato “la via del cuore” in ogni àmbito e che

«mostrò veramente senno in quel tempo di miseria, di pianto, di lutto […] per salvare il salvabile perché la nazione non perisca interamente».

Abbiamo parlato in apertura di un «giudizio sereno e distaccato» del Roncuzzi. Il saggista, in effetti, non ha intenzione di scrivere un’apologia sul Cardinale Ruffo, tanto che si sofferma anche sui suoi difetti, su un certo gusto mondano all’epoca della frequentazione dei salotti romani.

Pur non facendo pendere l’ago della bilancia né da una parte né dell’altra, alla domanda se il Ruffo fu un reazionario e un anti-italiano, l’Autore precisa che la questione implica una «revisione di valori e valutazioni storiche».

In che senso? Una volta di più, e stavolta è il Roncuzzi a metterlo nero su bianco, la storia patria non obbedisce al principio dell’oggettività dell’esposizione dei fatti e delle ragioni che furono all’origine di determinate circostanze, ma viene scritta secondo l’interpretazione di quei fatti e di quelle ragioni. Questo spiegherebbe perché il Ruffo resta “relegato e dimenticato fra i quadri di soffitta”.

© Antonietta Florio

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