Antonio Catalfamo, Pasolini «Eretico Solitario» e la lezione inascoltata di Gramsci

«Pasolini, dunque, assume, al pari di Pavese, la posizione ideale di chi scrive «come morto», vale a dire con quel distacco che consente di affrontare i problemi nella loro complessità, nella loro proiezione non solo nel presente, ma anche nel futuro, acquisendo una dimensione «profetica» e, come tale, rimanendo nella memoria collettiva come eterno «ricordo». È vero ch’egli si sentiva prigioniero del presente, ma l’estrema sensibilità che lo caratterizzava, come uomo e come scrittore, ha fatto sì che la sua opera gli sopravvivesse e desse insegnamenti agli uomini non solo del suo tempo, ma anche a quelli di ogni tempo.» (A. Catalfamo, Pasolini «Eretico Solitario» e la lezione inascoltata di Gramsci)

Un’analisi minuziosa della complessa e articolata produzione letteraria, poetica e cinematografica di Pier Paolo Pasolini, tenendo conto dello sviluppo e della maturazione intellettuale e politica cui egli è pervenuto, è il fulcro del saggio di Antonio Catalfamo, Pasolini «Eretico Solitario» e la lezione inascoltata di Gramsci. L’Autore segue dunque da vicino lo scrittore friulano, ne indaga le fattezze psicologiche e politiche, evidenziando l’originalità e la poliedricità dell’intero corpus pasoliniano.

La questione della lingua è centrale nel primo Pasolini, là dove è ravvisabile il rifiuto di una prosa artificiale, di «una lingua costruita in laboratorio», a vantaggio dell’uso del dialetto casarsese, più adatto ad esprimere sentimenti e idee personali e collettive, quale espressione della creatività tanto del singolo quanto della società.

Ma non è solo questo. Si tratta soprattutto di fare della lingua dialettale lo strumento con il quale contrapporsi alla lingua imposta dal fascismo e di contrapporre alla dittatura fascista, che ha avviato il processo di omologazione culturale e di unificazione linguistica delle classi borghesi dominanti, l’evoluzione antropologica prodotta dalla società consumistica. In tal senso, è stata benefica la lettura delle opere di Antonio Gramsci.

Antropologia, cultura e lingua convergono nel concetto di «biogeografia culturale», ovvero della “corrispondenza biunivoca” tra individuo e territorio di riferimento inteso nel duplice senso di geografico e umano:

«Pasolini è partecipe di tutto un patrimonio culturale che affonda le radici nei millenni, se ne impossessa progressivamente per via razionale, procedendo ad un’operazione di storicizzazione, anche se rimangono dei margini di irrazionalità, delle pulsioni istintive, che riemergono qua e là dall’inconscio e rappresentano altrettante “contraddizioni” rispetto al processo di razionalizzazione che, pur tuttavia, conserva una sua linearità e coerenza.»

È nelle Poesie a Casarsa che Pasolini coglie il dramma dell’uomo moderno, autore e spettatore a un tempo della scomparsa del mondo contadino – sul quale grava quella che è stata definita l’“ossessione mortuaria” di Pasolini) – della separazione dalla natura, non più locus amoenus e incontaminato, ma paradiso perduto ed emblema dell’innocenza anch’essa perduta.

Ciò è all’origine di sentimenti non soltanto di malinconia, bensì anche di un profondo dolore, che si trasmuterà in protesta sociale e denuncia di sfruttamento.

È quanto emerge ne Il sogno di una cosa, un Bildungsroman, nel quale il realismo del contesto storico, sociale e politico è lo sfondo entro cui Pasolini descrive il processo di crescita e di formazione di una generazione di giovani e in cui lo scrittore affianca e sostiene i poveri braccianti comunisti nella lotta contro i grandi proprietari terrieri.

Catalfamo, tuttavia, non si ferma alla narrativa e alla morale che essa sottende. Il sogno di una cosa ha una certa importanza nella produzione letteraria di Pasolini, poiché in esso sono contenuti i tratti fondamentali della poetica dell’Autore.

Detti tratti sono riassunti nella formula «passione e ideologia», ladddove la “e” sta ad indicare una graduazione cronologica: prima la passione, ma poi l’ideologia; prima l’adesione passionale (e, dunque, istintiva e pulsionale) alla realtà, e poi l’esame razionale. Eppure il mito e la vita in Pasolini sono profondamente intrecciati, poiché egli tende ad attribuire connotati appunto mitici a tutti gli avvenimenti della sua travagliata esistenza.

Si rileva una diversità nel primo romanzo romano, Una vita violenta, per due motivi principali. Innanzitutto perché l’Autore segue minuziosamente il processo di formazione umana e politica di un solo protagonista, Tommasino, accentuandone la psicologia; in secondo luogo perché il mondo che qui Pasolini rappresenta non è a-storico, chiuso in se stesso e contrapposto alla società borghese.

Egli descrive qui l’evoluzione sociale, economica, politica, etica e ideologia del sottoproletariato delle borgate romane, mentre da un punto di vista linguistico si ha una contaminazione tra l’italiano e il dialetto, che

«si arricchiscono a vicenda, e ne viene fuori un linguaggio narrativo che, se non è pedissequamente mimetico della realtà, tuttavia non è esclusivamente lirico, ma, complessivamente, arricchito dal reale e dalla sua trasfigurazione artistica.»

Quanto al binomio Pasolini-Gramsci, Catalfamo rivela le contraddizioni che lacerano il friulano e lo allontanano dall’ideologia del sardo. Se Gramsci scrivendo I Quaderni del carcere non compie un’operazione intellettualistica, ma studia profondamente la realtà per dare basi teoriche al movimento del futuro, per individuarne limiti ed errori così da poterli superare, Pasolini indaga e sviscera la realtà, la interiorizza, s’immerge in essa, ma non riesce a trovare una soluzione alternativa.

Questa contraddizione si fa poesia e la poesia diventa sì la soluzione letteraria alla crisi, ma al contempo è il luogo della crisi, del dissidio e degli opposti che non trovano una risoluzione in un momento unitario di sintesi superiore. È ciò che Franco Fortini definisce “sineciosi” e che si rileva particolarmente ne Le ceneri di Gramsci, l’opera che segna una svolta nella poetica pasoliniana.

Anche quando veste i panni del regista, Pier Paolo Pasolini rappresenta se stesso e le contraddizioni inestricabili di cui è prigioniero, dubbi e interrogativi irrisolti e irrisolvibili a un tempo, il senso di solitudine, il rifugio nei sogni, la diatriba tra le componenti razionale e irrazionale, nonostante i tentativi di storicizzazione che si concludono con la presa di coscienza dell’impossibilità del cambiamento e ad un cupo pessimismo, di cui l’arte e la poesia non costituiscono più un’alternativa:

«il Nostro dimostra, nel complesso della sua opera, una grande critica del presente, della società capitalistica cosiddetta «matura» sua contemporanea, ma, nello stesso tempo, rimane prigioniero della stessa e della propria vis polemica, non credendo, in ultima analisi, ad una prospettiva concreta di cambiamento.»

Da qui, la stesura di articoli giornalistici attraverso i quali denuncia ferocemente la società capitalistica contemporanea e con essa l’intellettuale che, nonostante i tentativi di far prevalere la razionalità, finisce col soccombere ad un’irrazionalità inconscia, con l’accettare l’inaccettabile in un processo nichilistico il cui esito sarà ineluttabilmente tragico.

Il resto è storia. Pier Paolo Pasolini viene brutalmente assassinato il 2 novembre 1975 nei pressi della spiaggia di Ostia. L’amico Alberto Moravia dirà di lui:

«La sua fine è stata al tempo stesso simile alla sua opera e dissimile da lui. Simile perché egli ne aveva già descritto, nella sua opera, le modalità squallide e atroci, dissimile perché egli non era uno dei suoi personaggi, bensì una figura centrale della nostra cultura, un poeta che aveva segnato un’epoca, un regista geniale, un saggista inesauribile.»

© Antonietta Florio

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