«Io sono, infatti, un esistente che impara la sua libertà mediante i suoi atti; ma sono pure un esistente la cui esistenza individuale e unica si temporalizza come libertà. Come tale io sono necessariamente coscienza di libertà, poiché nulla esiste nella coscienza se non come coscienza non-tetica di esistere. Così la mia libertà si problematizza continuamente nel mio essere: non è una qualità aggiunta o una proprietà della mia natura; è, esattamente, la stoffa del mio essere; e poiché il mio essere si problematizza nel mio essere, io necessariamente devo avere una certa comprensione della libertà.» (J.-P. Sartre, L’essere e il nulla)

Testamento dell’esistenzialismo francese e caposaldo della filosofia contemporanea, L’essere e il nulla di Jean-Paul Sartre si focalizza sulla condizione dell’uomo che, come vedremo a breve, secondo il filosofo è un “Dio mancato”. Impossibilitato nel suo desiderio di raggiungere una dimensione di pienezza totale e di vivere in totale accordo con il mondo che lo circonda, cui attribuisce senso e significato, l’uomo sartriano si trova in una posizione peculiare e tremenda.
Egli deve continuamente inventare sé stesso e lo fa mediante le scelte che compie. Queste scelte, che non può non fare, implicano che l’uomo abbia delle responsabilità nei confronti di sé stesso e della sua esistenza ed è in questa libertà di scelta – ecco il concetto chiave del saggio – che si espleta massimamente la tragicità e la drammaticità dell’essere umano, condannato ad essere libero. Scrive infatti Sartre:
«L’uomo è condannato a esistere ed esistere significa scegliere. La scelta è fonte di disperazione, perché nella scelta viene coinvolto l’uomo in modo individuale e personale. […] è la scelta il fondamento di ciò che l’uomo e il mondo possono essere.»
Prima di arrivare a questo punto, però, il filosofo disserta massicciamente sui concetti di fenomeno (il fenomeno dell’essere e l’essere del fenomeno), che è ciò che si manifesta, e di coscienza, che «è un essere per cui nel suo essere si fa questione del suo essere in quanto questo essere ne implica un altro distinto da sé». E l’essere, che cos’è?:
«è il fondamento sempre presente dell’esistente, lo si trova dappertutto e da nessuna parte, non c’è essere che non sia essere di una maniera d’essere e che non sia colto attraverso la maniera d’essere che a un tempo lo manifesta e lo nasconde.»
Ciò sta a significare che l’essere non è attivo né passivo, è al di là dell’affermazione e della negazione e sfugge alla temporalità. Esso presenta la triplice caratteristica di: essere in-sé, essere ciò che è e più semplicemente di essere («l’essere è»). Siffatta asserzione comporta che al di fuori dell’essere ci sia il nulla, per cui si affaccia qui una nuova realtà: il non-essere.
Si tende qui a considerare l’essere e il non-essere come due componenti del reale, alla stregua del pensiero hegeliano, secondo cui l’essere altro non è che una manifestazione dell’esistente. Ma – ribadisce Sartre, collocandosi in tutt’altra posizione – mentre l’essere è la condizione di tutte le strutture del fenomeno, il non-essere è la contraddizione dell’essere, esso è «l’essere prima posto e poi negato» (posterità logica).
L’essere è anteriore al nulla e che questo nulla inerisce necessariamente all’essere («il nulla porta l’essere nel cuore»): l’essere è vuoto di ogni determinazione; il nulla è vuoto d’essere, non è, si nullifica ed è tale sulla base dell’essere, «è la negazione come essere».
«Il nulla è la problematizzazione dell’essere da parte dell’essere, cioè la coscienza o per-sé. È un avvenimento assoluto che viene all’essere per mezzo dell’essere, e che, senza avere l’essere, è sempre sostenuto dall’essere. […] Il nulla è la possibilità propria dell’essere, e la sua unica possibilità. […] Essendo il nulla nulla d’essere, non può venire all’essere che per mezzo dell’essere stesso.»
Di conseguenza, la formula spinoziana viene ribaltata: non è più omnis determinatio est negatio, ma ogni negazione (il non-essere) è determinazione (l’essere) e ogni determinazione è superamento (il Dasein heideggeriano).
Passando poi alla definizione della persona come “libero rapporto con sé” e discettando sulla temporalità, Sartre perviene alla conclusione che l’essere è problematico e preda dell’angoscia:
«Io sono il mio futuro nella continua prospettiva della possibilità di non esserlo. Di qui l’angoscia che abbiamo descritto prima e che proviene dal fatto che non sono abbastanza quel futuro che devo essere e che dà senso al mio presente; io sono un essere il cui senso è sempre problematico.»
Si affaccia qui la triade avere-fare-essere, quali categorie principali della realtà-umana e sintesi dei comportamenti dell’uomo, tutti presupponenti in egual modo un’unica e medesima condizione: la libertà dell’essere agente, che non ha essenza, dal momento che essa è fondamento di tutte le essenze, e non è sottomessa ad alcuna necessità logica:
«La libertà si fa atto e noi la raggiungiamo di abitudine attraverso l’atto che essa organizza con i motivi, i moventi e i fini che implica.»
Appare chiaro che la libertà è un concetto indescrivibile, indefinibile e innominabile (la libertà non è qualcosa da dimostrare, ma qualcosa che va vissuto, direbbe Fichte), ma di essa l’uomo avrà una certa comprensione, non può non sentire la libertà.
Ciò che vale per la realtà-umana, e cioè che è tramite essa che la negazione viene al mondo e, dunque, che la realtà-umana è il proprio nulla, vale anche per la libertà che è «il nulla che è stato nell’intimo dell’uomo e che costringe la realtà umana a farsi invece che a essere.» Detto altrimenti, «la libertà non è un essere, è l’essere dell’uomo, cioè il suo nulla d’essere».
Ma è da questa libertà che scaturisce l’angoscia ed è in questa libertà che si cela la disperazione dell’uomo. Se l’esistenza precede l’essenza (e non il contrario come vuole Heidegger, giacché l’uomo sartriano prima esiste e poi crea da sé la sua essenza), se l’esistenza è il carattere specifico dell’uomo, il quale, pertanto è condannato a esistere, allora nella condanna all’esistenza è implicata la condanna della libertà.
Essere vuol dire farsi («la ragione dei nostri atti è in noi stessi: noi agiamo come siamo e i nostri atti contribuiscono a farci») e vuol dire scegliersi («Bisogna essere coscienti per scegliere e bisogna scegliere per essere coscienti»).
Ma in questa scelta, che chiama in causa la volontà, «avvenimento psichico di una struttura propria», e la passione, perché non basta volere, bensì bisogna voler volere, la libertà è ab origine e ontologica, «come fondamento dell’insieme dei significati che costituiscono la realtà».
In definitiva, la libertà «partecipa alla necessità che prescrive alla coscienza di essere coscienza di qualche cosa», perciò «è libertà di scegliere, ma non libertà di non scegliere» e
«Una libertà che si vuole libertà è infatti un essere-che-non-è-ciò-che-è e che-è-ciò-che-non-è, che sceglie, come ideale d’essere, l’essere-ciò-che-non-è e il non-essere-ciò-che-è. Sceglie dunque non di riprendersi, ma di fuggirsi, non di coincidere con sé, ma di essere sempre a distanza da sé.»
Vi torneremo.
© Antonietta Florio