«Che cosa mai era successo, com’era possibile che il mondo fosse cambiato a tal punto? Ma era proprio cambiato, questo era un fatto. Certo, il suo aspetto era ancora il solito, i campi, le case, il cielo, la luna erano quelli di sempre, ma era mutato qualcosa che stava dietro le cose; ciò ch’era visibile era rimasto uguale, senza dubbio, ma l’invisibile era radicalmente cambiato, nell’animo degli uomini tutto un mondo si stava trasformando, dissolvendo, inabissando […] Era una vera e propria fine del mondo.» (A. Lernet-Holenia, Lo stendardo)

«Giuriamo solennemente davanti a Dio Onnipotente […] di non abbandonare mai le nostre truppe, le armi, le bandiere e gli stendardi…». Comincia con questo giuramento, a mò di antefatto, Lo stendardo dello scrittore austriaco Alexander Lernet-Holenia che ripercorre, attraverso i ricordi e la nostalgia dell’alfiere Herbert Menis, nonché voce narrante, la disfatta dell’esercito austriaco negli ultimi mesi del primo conflitto mondiale, anche se
«non sono affatto convinto che questa guerra sia finita. Sta continuando, in realtà. Sta continuando in tutti quelli che l’hanno combattuta e che ora devono starsene in mezzo a una strada a chiedere la carità. Sta continuando anche dentro di me. Prima io non avevo capito che cos’è la guerra. Solo quando la guerra non c’è stata più, ho cominciato a capirla.»
Avvenimenti tragici edulcorati da un amore bruciante e travolgente, che sboccia ex abrupto, ma che non vede mai veramente la luce. Passione e sentimenti così vividi, così forti, ma che non prendono mai davvero lo slancio, che non diventano mai qualcosa di più. Un amore platonico, ma non troppo. Un amore ostacolato da qualcos’altro: lo stendardo, appunto, sul cui drappo è raffigurata l’aquila bicipite.
La narrazione si costruisce allora su due piani (o filoni) non separati, ma quasi co-implicantesi: il pubblico e il privato, la passione e l’avventura, l’amore per l’esercito e l’amore per una donna, la bella Resa Lang, l’incontro con la quale è un colpo di fulmine per entrambi. E, si sa, per amore si fanno follie.
Nel Konak, il palazzo dei reali di Serbia, comincia un flirt fatto di conversazioni in cui si prende atto dell’impossibilità di vivere il sentimento alla luce del sole, di trasformarlo in qualcosa di più grande e concreto, per motivi su cui i due amanti resteranno arroccati su posizioni diverse.
Sia la passione amorosa, sia l’avventura lasciano spazio alla narrazione storica vera e propria, al resoconto degli eventi bellici. E qui, complice la maestria stilistica di Lernet-Holenia, la narrazione si fa compartecipata e profondamente sentita. Vissuta, addirittura. Si percepisce in maniera vivida il sentimento imperante e la disfatta ormai prossima. Nonostante ciò, «Non posso abbandonare lo stendardo», afferma Menis.
A questo punto, l’insegna del reggimento Dragoni delle Due Sicilie diventa protagonista assoluta. Ad essa, emblema del giuramento alla corona imperiale, espressione della fedeltà a un’idea che pare ora insostenibile, il nostro alfiere consegna le sue inflessioni riflessive: per difendere lo stendardo e tenere alto l’onore, i soldati hanno perso i loro beni, la loro famiglia e hanno rinunciato alla loro vita.
Ma adesso le cose stanno cambiando o, forse, sono già cambiate: l’ossequio della truppa viene progressivamente meno, l’unità dell’esercito austro-ungarico è perniciosamente minata. Di conseguenza, una parte della storia del mondo va pian piano, ma senza sosta, inabissandosi e gli uomini perdono il senso di ciò che fanno, non riconoscono più il valore delle cose:
«Perché gli uomini talvolta perdono tutt’a un tratto il senso del valore delle cose. Solo per scaldarsi le mani incendiano allora i castelli dei re, e soltanto quei pochi che fuggono dai loro letti in fiamme sanno che cosa sta andando in cenere. Ma gli uomini si ritengono più importanti di ciò che fanno.»
Nel mezzo di questa dispersione, di questo sradicamento e persino di anacronismo («non avremmo potuto trovare niente che altrettanto chiaramente ci facesse capire, tutt’a un tratto, quanto fossimo ormai fuori posto, fuori tempo») è allo stendardo che Menis mira.
La ricerca dello stendardo è la ragione per la quale egli si muove e quando finalmente ne entrerà in possesso, sventolandolo in groppa a Mazeppa, il suo cavallo, si renderà conto che lo scopo della sua vita ruota (e ha sempre ruotato) intorno a quell’emblema, quantunque i soldati – quelli che non hanno ammutinato – continuano a combattere per l’Austria più per abitudine che per interesse e in nome di una causa reale:
«Lo stendardo era mio, ora! Intorno a me le vite umane si disperdevano come pula al vento, ma lo stendardo era mia! Intorno a me c’era l’inferno, ma lo stendardo era mio! Tutt’a un tratto capii di aver saputo, fin dal primo momento che l’avevo visto, che lo stendardo mi spettava e che sarebbe stato mio. L’avevo ottenuto nel medesimo istante in cui il reggimento del quale era l’emblema aveva cessato di esistere. Ma era mio! Lo stendardo era mio!»
Da questo momento in poi, la storia dell’alfiere Menis, «l’ultimo alfiere di un’epoca ingloriosa», diventa la storia d’amore con l’insegna, equiparata a una donna che trasuda amore e sensualità ad ogni pensiero e ad ogni sguardo, ma diventa anche l’ultimo, e forse l’unico, appiglio cui aggrapparsi quanto tutt’intorno non v’è altro che un cumulo di macerie e di polvere:
«mi decisi a sfiorare quel broccato, come se accarezzassi i riccioli di una sposa; era morbido al tatto, come la chioma di una fanciulla; quella era notte di nozze, ma non la celebravo con colei alla quale avevo promesso di venire, la celebravo con questa bandiera, che era pura come mai fanciulla era stata.»
Sventolare lo stendardo non significa soltanto difendere una causa, un’idea e tenere alto l’onore dell’esercito austriaco, benché ridotto ormai a «un’accozzaglia di truppe mescolate alla rinfusa», ma rappresenta quel tutto in nome del quale lui, Menis, è pronto a sacrificare qualunque cosa, persino l’amore.
Perché? Perché viva e più forte di ogni altra cosa è la speranza di ricostruire lo Stato, di far risorgere l’Impero e dare all’insegna la possibilità di sventolare nuovamente alla testa di un reggimento.
Eppure quella visione è destinata ben presto ad essere spazzata via da una realtà che non ammette replica, con l’improvvisa e tragica presa di coscienza che al tramonto non avrebbe fatto seguito una nuova alba, che indietro sarebbe stato impossibile ritornare.
Un segnale chiaro e inequivocabile è rappresentato dal decesso del Conte Bottenlauben che, ferito, si arrende e cessa di combattere, instillando in Menis un senso di solitudine e abbandono, di confusione, smarrimento ed estraneità tra oggetti e persone familiari:
«avevo la sensazione che non mi fosse consentito di arrivare in nessun luogo, quella non era più la casa che avevo abitato da bambino, gli oggetti ch’erano lì mi erano estranei, io ero partito da tutt’altro luogo, non ero affatto ritornato indietro, mi trovavo tuttora altrove, e indietro non sarei potuto tornare mai più.»
Sapendo di non avere nulla e di non poter tornare da nessuna parte, il nostro alfiere ha una sola cosa a cui aggrapparsi: lo stendardo, che adesso «apparteneva ai morti e a me. Ai morti forse avrei avuto il dovere di restituirla, ai vivi non più». L’insegna è la sua realtà, l’unica cosa che gli resta, mentre Resa, innamorata di lui più che mai, diventa un’immagine sfocata, sempre più lontana.
Menis e Resa “sono vicini, ma mai abbastanza per toccarsi davvero”; protagonisti di una storia d’amore fiabesca e avventurosa, in cui si mescolano crudeltà e delicatezza, non solo nell’esplorazione dei sentimenti, ma anche nel rischio, nella cavalleria e nella bellezza appassita di un mondo alla deriva, nuovo e profondamente mutato.
«Era lì e guardava me. Mi aveva aspettato ed era lì, come se mi aspettasse da sempre, come se lo sapesse bene che sarei venuto da lei quando tutto il resto fosse passato, e che allora lei doveva esserci, perché io non avrei avuto più nessuno all’infuori di lei.»
Lettura consigliata!
© Antonietta Florio