«La storia della filosofia non è una narrazione lineare e orientata finalisticamente verso uno sbocco necessario e predeterminato. Essa non racconta soltanto la successione, ma anche la molteplicità di modelli di pensiero e di concezioni dell’uomo e del mondo. […] L’ermeneutica filosofica è un compito infinito, e lo storico della filosofia non deve registrare sentenze inappellabili, ma fornire alla nostra riflessione una tastiera con molte ottave, una tavolozza dai molti colori.» (V. Giacché, Filosofia dell’Ottocento. Dall’Idealismo al Positivismo)

Con Filosofia dell’Ottocento. Dall’Idealismo al Positivismo, Vladimiro Giacché percorre, come preannuncia il titolo, la storia della filosofia dell’Ottocento, evidenziando di volta in volta l’importanza e il rilievo storico che le teorie dei vari pensatori hanno avuto e l’influsso e l’eredità che hanno lasciato negli anni successivi e che ancora oggi influenzano il nostro modo di pensare.
Alla stregua di un manuale didattico, l’Autore passa in rassegna non solo i filosofi più illustri di quel periodo, ma anche poeti e letterati (Goethe, Novalis, Hölderlin), scienziati ed economisti (Darwin, Spencer, Mill), evidenziando l’imprescindibilità, da parte dei moderni, di attingere al patrimonio greco-latino e alla filosofia classica (Kant e Spinoza, ad esempio).
Ciò è valido soprattutto per gli idealisti, attenti alle vicende politiche del loro tempo e speranzosi, durante e dopo la Rivoluzione Francese, di costruire una società libera. In sede filosofica, il concetto di libertà, quale facoltà del bene e del male (Schelling), viene declinato sul piano della coscienza (che esiste indipendentemente dal mondo esterno) e della «contraddizione tra l’attività infinita dell’io e l’esperienza della finitudine dell’io», tenendo presente che la libertà non è qualcosa che deve essere teorizzato o dimostrato, ma vissuto. Più precisamente, la libertà dell’Io consiste nel riconoscere la propria esistenza, è un modo di manifestazione dell’essere.
Ad emendare, se così si può dire, l’antitesi tra attività infinita ed esperienza infinita è lo Streben (tendere) di Fichte, in riferimento all’uomo che, mosso dallo sforzo, dalla volontà, dall’impulso, dal desiderio e dal sentimento, è un Io caratterizzato da finitudine ma tendente all’infinito, senza però dimenticare che il suo fine principale è «di elevarsi a una sempre maggiore autonomia morale», alla perfezione irraggiungibile (Goethe), e per questo motivo detta aspirazione è sempre accompagnata da angoscia e disperazione.
Ergo, la philosophia deve insegnare all’uomo a comprendersi nella sua interezza, essendo egli abitante di una realtà intesa come totalità che riempie la vita, come unità di essenza ed esistenza, caratterizzata da necessità (la Wirklichkeit di Hegel).
Di conseguenza, il compito del filosofo è di indicare la destinazione dell’uomo, il quale deve organizzare i rapporti della sua vita secondo ragione (qui coincidente con la vita morale). Tale è il pensiero di Schelling (esponente dell’Idealismo, insieme a Fichte e Hegel):
«La ragione del finito risiede nella sua assoluta separazione dall’infinito. La destinazione morale dell’uomo e il fine della storia consistono nella riconciliazione con l’Assoluto, in una “redenzione della caduta” sino alla compiuta rivelazione di Dio.»
Per raggiungere questo obiettivo è necessaria una educazione estetica, laddove l’arte ha la precipua funzione di sollevare l’uomo – siamo in pieno Romanticismo – dal becero mondo materiale a quello morale. Qui la natura (ri)assume un ruolo preminente, è emblema di Dio.
Il medesimo percorso di innalzamento della coscienza verso il sapere è tracciato successivamente da Hegel nella Fenomenologia dello spirito, in cui lo spirito si allontana dalla certezza sensibile per giungere alla conoscenza del “vero intero”, all’assolutezza della ragione e all’unità con sé stesso, opportunamente coadiuvato dalla religione.
Di tutt’altro tenore è il pensiero di Schopenhauer che oppone alla scienza e al razionalismo degli idealisti, il primato dell’intuizione. Celebre è l’opera Il mondo come volontà e rappresentazione, in cui egli espone il punto di partenza della sua filosofia:
«”Il mondo è una mia rappresentazione”: ecco una verità valida per ogni essere vivente e pensante, benché l’uomo possa soltanto venirne a coscienza astratta e riflessa. E quando l’uomo sia venuto di fatto a tale coscienza, lo spirito filosofico è entrato in lui. Allora, egli sa con chiara certezza che […] il mondo circostante non esiste se non come rappresentazione, cioè sempre e soltanto in relazione con un altro essere, con il percipiente, con lui medesimo.»
E distante dagli idealisti è anche Feuerbach, il quale favorisce la ripresa del pensiero materialistico con il cosiddetto “Umanesimo materialistico”, un concetto mediante cui il filosofo chiarisce che l’uomo crea la sua propria storia ed
«è consapevole di essere l’essenza autocosciente della natura, l’essenza della storia, l’essenza dello Stato, l’essenza della religione».
Un decisivo cambiamento di registro si ha con Giacomo Leopardi che, finalmente trova posto legittimo nella schiera dei filosofi. Il recanatese se da un lato sottolinea il rapporto stretto, e anzi indisgiungibile, tra filosofia e poesia. Dall’altro evidenzia le nefandezze e i pericoli dell’«incivilimento eccessivo», dello sviluppo tecnico-scientifico, formulando quel concetto di nichilismo che occuperà massimamente la speculazione nietzschiana e heideggeriana e di cui Emanuele Severino ne offre un’attenta e illuminante disamina ne Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età tecnica: Leopardi.
Eppure sarà la nascita del Positivismo a segnare un punto di non ritorno. Auguste Comte, il suo illustre esponente, è infatti persuaso che lo spirito umano sia conoscibile non per mezzo dell’interiorità e dell’introspezione della coscienza, ma grazi alla scienza, individuando un nesso stretto tra il rinnovamento intellettuale e la vita politica e sociale.
Risiede in questo l’essenzialità della sociologia comtiana ai fini della riorganizzazione della società: conoscere il passato per meglio comprendere la crisi del presente e agire di conseguenza. Di Comte è il celebre detto “vedere per prevedere”.
E con questa asserzione, condividiamo l’opinione di Vladimiro Giacché, per il quale gli sviluppi della riflessione filosofica, le formulazioni di nuovi pensieri, per quanto possano discostarsi dal passato, è con esso che si confrontano, ed è da esso che traggono ispirazione. Questo legame imperituro tra passato e presente è una costante della e nella storia della filosofia.
© Antonietta Florio