«Più preoccupante di qualsiasi minaccia esterna è la sconfitta interiore, la degradazione morale che annienta la sola cosa in grado di dare un senso alla resistenza. Questo ci riporta alla grandezza. Mettere in luce ciò che nell’uomo è grande e degno, insegnare e comprendere che esiste una gerarchia storica e teologica delle gesta e delle opere, è assai più importante del progresso tecnologico, il quale potrà essere sempre soltanto una leva, mai un valore.» (E. Jünger – C. Schmitt, Il nodo di Gordio)

Il nodo di Gordio, apparso nel 1953, è un saggio di Ernst Jünger che, pur aprendosi con una riflessione interrogativa («Come dobbiamo interpretare il colpo di spada con cui Alessandro Magno tagliò il nodo?»), travalica la dimensione del mythos, per gravitare in un’altra orbita, archetipica, primigenia e tellurica.
Essa ha un’importanza particolare, è una questione vitale che si ripropone di continuo e, per ciò stesso sempre attuale, perché non solo ha a che fare con una disposizione del tutto nuova dello spazio e del tempo, non solo ha una natura spirituale, ma in essa acquistano un certo rilievo concetti come destino, libertà, dispotismo e soprattutto incontro.
Già, incontro. Fra chi? E che cosa? L’incontro tra Europa e Asia, tra Oriente e Occidente che non sono – scrive Jünger – due blocchi contrapposti geograficamente, essendo fluida la linea di confine che li separa:
«I confini tra la concezione occidentale e quella orientale non devono essere considerati rigidi; hanno qualcosa di fluido. Ai loro margini si ha un continuo scambio di idee e di forme che attraversa le epoche.»
Si tratta sostanzialmente di comprendere ciò che avviene all’interno delle mutevoli e molteplici configurazioni dei rapporti di forza e nello strato più profondo dell’uomo, il cui ordine è perniciosamente sovvertito quando “tutto viene messo in causa”.
È qui che si registra la grossa differenza tra Oriente e Occidente, nella nozione di libertà e del valore che ad essa si attribuisce, sino a coinvolgere la concezione che l’individuo ha della vita:
«Ciò che un uomo pensa della persona e del destino, il modo in cui dà e prende ordini, ciò che ritiene morale o immorale, il modo in cui si pone di fronte alla morte – tutto questo dipende dall’importanza che egli assegna al libero arbitrio.»
Vi si aggiungano altresì i concetti di “essere” e “significare”, che si perdono nella selva oscura della tecnica, quale astrattezza infinita del progresso che sfocia nel nichilismo inteso sia alla maniera di Nietzsche, come crollo dei valori, sia heideggerianamente, come oblio dell’essere.
In entrambi i casi, «cresce l’orrore per un mondo estraneo», in cui si accende la fiamma della diffidenza che non avrà altro esito se non la violenza, quale “inizio e fino di tutto”.
Ed ecco che si guarda al passato, la cui interpretazione diventa vitale e ineludibile, si guarda alla grandezza del modello, all’exemplum, cercando di «scorgere che cosa risplende dietro agli uomini e alle loro azioni».
Ecco che la contrapposizione tra Oriente e Occidente non è altro che l’opposizione tra mythos ed ethos, spirito e materia, libertà e dispotismo, potere tellurico e luce, arbitrio e diritto, quale metafora – dirà Schmitt – «di una polarità di atteggiamenti fondamentali».
Pertanto, quando il Magno tagliò il nodo credendo così di aver reciso definitivamente qualsivoglia motivo di distanza e di attrito, era ben lungi dall’essere vicino al vero.
La lotta tra il potere tellurico e la luce non è combattuta solo da Alessandro, bensì anche dentro di lui, nell’alternanza sempiterna di tensione e armonia, ragion per cui non ci saranno mai né vinti né vincitori, ma “ad ogni tensione seguirà sempre una distensione” (Schmitt):
«Ogni grande popolo è necessario, e non si può ignorarne l’esistenza, se non si vuole che il mondo crolli.»
E Schmitt, appunto, cosa ne pensa? Nella Struttura storica dell’attuale contrapposizione planetaria tra Oriente e Occidente, scritta in risposta al testo jüngeriano, afferma che si tratta del dualismo storico-dialettico fra terra e mare.
È evidente la diversa Weltanschaungen fra i due: Jünger depura il nodo Oriente-Occidente dalle connotazioni spaziali e storiche (rendendolo “impolitico”). Per Schmitt, invece, la contrapposizione deve essere concreta e determinata sia storicamente, sia spazialmente.
Data la coloritura geopolitica che questa contrapposizione planetaria assume nel pensiero di Schmitt, si ha da un lato il nomos della terra (il cui emblema è la casa, l’abitare) e dall’altro quello della «tecnica scatenata» (emblema del movimento, dello sradicamento).
La soluzione dove sta? Nell’equilibrio tra potere e libertà che formi dei Großräumer, concorrenti non a recidere definitivamente il nodo di Gordio, ma a scioglierlo con un “patto” che non implichi la perdita di autonomia né da una né dall’altra e conduca anzi alla nascita di un Weltstaat, con una sua specifica «iconografia regionale».
© Antonietta Florio