Ruggero Cappuccio, La principessa di Lampedusa

«È tutta così la vita. Viviamo al buio. Finché qualcosa non viene a sussurrarci che fuori di noi c’è un altro mondo. Chiudiamo gli occhi. Resistiamo. Vorremmo continuare a dormire. Ma se non vinciamo la pigrizia del corpo e la pigrizia della mente, non sapremo mai cos’è la luce.» (R. Cappuccio, La principessa di Lampedusa)

Maggio 1943. Beatrice Tasca Filangeri di Cutò, principessa di Lampedusa, attraversa Palermo, città deserta e silenziosa, per riprendere possesso del palazzo di famiglia.

L’incredulità e il dolore davanti ai cumuli di macerie e rovine provocati dai bombardamenti alleati, che altera l’equilibrio emotivo in bilico tra l’emozione felice del ritorno e il rischio di una caduta nell’abisso, trapassa dagli occhi al cuore e con questa immagine, con questo ritorno, Ruggero Cappuccio apre La principessa di Lampedusa e ci immerge nella storia.

In via Lampedusa la principessa è colta da un forte senso di straniamento, è come se la consistenza del suo stesso essere si sminuzzasse in innumerevoli frammenti, assimilabili ai cocci delle case distrutte, quasi che quelli siano lo specchio di questi

«Non c’è un solo pezzo di intonaco crollato che non sia per me come un pezzo di carne mutilata. Ma non è soltanto casa mia, Palermo è il mio corpo.»

Tutto e niente sembra appartenerle di quel luogo devastato, in cui non c’è più un dentro né un fuori e persino il tempo si è fermato («La vita apparente di questo pomeriggio è soltanto la prova generale della morte»).

Il presente è solo una sensazione transitoria di cui non si ha piena coscienza, forse non ha neppure un senso (se il senso del tempo “si accorda soltanto a una promessa di futuro”). Esiste solo il passato, simboleggiato dallo stemma di famiglia, l’unico oggetto ad aver conservato l’integrità: “‘U Gattupardu”.

È il medesimo sentimento, quello dell’estraniamento da sé, provato dalle persone che incontra lungo le vie di una Palermo in fiamme, nei cui occhi non vi legge solo tristezza, bensì anche dignità nella consapevolezza della tragedia.

E negli occhi di Eugenia Bonanno che la osserva da dietro la finestra di casa sua, cosa c’è? La speranza della salvezza che può arrivarle soltanto da quella bellissima e misteriosa principessa.

Più la spia, più sente il desiderio di voler essere come lei: la capacità di essere forte e sola. Di essere forte da sola, sottraendosi dal peso dell’etichetta per provare l’ebrezza della selvatichezza, l’incomparabile piacere di non essere più nessuno, fuorché sé stessa («Quando troviamo noi stessi, perdiamo gli altri»), e di vivere nella pace del nulla, accogliendo e obbedendo soltanto a ciò che comanda l’anima:

«Essere nobili è interessante solo perché, se si è sensibili, si impara a fare i conti con la memoria. […] Ho scoperto perché i miei avi erano ambiziosi e perché lo ero io. […] Ho capito che da loro avevo ereditato pensieri e sogni. Ho dovuto iniziare a combattere contro tutto questo, per sapere chi ero, chi ero io veramente al di là di loro. I palazzi, i blasoni, le etichette sono terribili prigioni. Ho cominciato a segare le sbarre della cella fin da ragazzina. Ognuno di noi cresce ingessato nelle regole della religione, della società, della classe cui appartiene. […] Bisogna dare un calcio allo steccato e spaccarlo. Anche se a volte è sufficiente un salto leggero per scavalcarlo e fuggire via. Non si tratta di non amare ciò che si è e ciò che si ha, si tratta di conoscere tutto fino in fondo, senza indulgenze.»

Preda dei disordini fisici ed emotivi causati dall’età adolescenziale, Eugenia ha un sogno: laurearsi in Fisica e sposare Cateno. Eppure, mentre scalpita per vivere l’inizio, cominciando a gustare un senso di libertà, è pervasa dal senso della fine di ogni cosa («Era tutta una faticosa preparazione alla vita, e spesso la vita non c’era»).

La sua famiglia, infatti, prima la costringe a interrompere gli studi e poi le impone un matrimonio combinato con il giovane Guerrera, figlio di un ingegnere che può garantire un assai grosso benessere economico.

Quando finalmente le due si conoscono, l’una resta affascinata dall’altra: per Eugenia si dischiude un mondo nuovo che non cessa di ammirare con stupore; Beatrice, invece, rivede nella giovane la proiezione di sua figlia morta per difterite.

È così che comincia un lungo, tenero e profondo apprendistato alla vita “per decidere se essere una candela o una stella”, che non esclude le prove più dure, ché con quelle ci si rafforza («Sto solo cercando di affilare la sua anima») e perché solo nel salto che oltrepassa la paura c’è la bellezza («Bisogna avere la forza di andare verso la paura. È lì il nostro appuntamento irrinunciabile»).

Un’educazione alla vita, insomma, che sfida la crudeltà del tempo nella costruzione di progetti ambiziosi, per preparare il terreno alla semina, evitando il triste finale dell’oblio e far sì che “il cuore batta al tempo dell’emozione”, che è l’unica cosa che conta davvero.

In ciò, Eugenia sarà sempre accompagnata dalla principessa; lei sarà sempre la sua alleata, il suo angelo custode, la sua ancella, anche quando non potrà vederla:

«Forse non ci rivedremo in questa forma. Ma anche senza il mio corpo starò con lei finché lo vorrà. Se dovesse avere nostalgia della mia voce chiuda gli occhi, respiri lentamente e si concentri: la sentirà. Oppure torni in questa casa, lascio sempre la porta aperta. Anche quando parto per un lungo viaggio. Se non mi sentirà dentro di lei, torni tra queste mura, vaghi per la foresta. Tra la luna e il lupo, mi troverà.»

Ma la principessa lavora anche per un’altra persona per lei importante: il figlio Giuseppe. In che modo? Ci sono momenti in cui non si deve capire tutto, ma soltanto vivere tutto; e poi, ci sono altri momenti in cui si può vivere in un solo modo: scrivendo.

E munita di carta e penna, ella comincia “a rapinare la banca della memoria”, opponendo al presente che si sgretola un futuro in cui la realizzazione dei sogni e del proprio destino è ancora possibile con grazia e splendore. Torna qui il paragone con la casa:

«Ho cominciato a prendermi cura della tua libertà, a volerti bene attraverso ciò che non è abbraccio, non è visione quotidiana, non è premura. Ancora per un po’ devo occuparmi di questa casa. Non sai quanto è importante. Forse hai ragione tu. Forse la perderai. Ma devi perderla bene. Se non potrai arrivare al punto di abitarla, dobbiamo arrivare al punto che lei abiti te. […] Sei tu che devi renderla eterna. Io sto accompagnando il corpo di questo palazzo nella storia del suo funerale. L’anima della casa e la sua immortalità sono compito tuo.»

Che si tratti di Eugenia o di suo figlio Giuseppe, La principessa di Lampedusa di Ruggero Cappuccio ci mette tutti, indifferentemente, di fronte a una domanda e a una scelta: cosa vogliamo essere? Vogliamo diventare noi stessi o morire?

Risuona il monito di San Giovanni della Croce: “Per giungere a ciò che non sei, devi passare per dove ora non sei”, e a piccoli passi, con la lama affilata, Beatrice prepara tutto per i futuri germogli, (lei sì, che «Aveva un talento tutto speciale per provocare i germogli»). L’uno, con gli occhi malinconici, è l’erede di sangue; l’altra, con una splendida vitalità, è l’erede di elezione:

«Non sono tua madre, ma ho un romanzo anche per te. L’eclisse della tua vita è momentanea. Ti sto aiutano a preparare la luce.»

Ma in tutti e due i giovani, e per quanti avranno la fortuna di leggere questo libro, Beatrice sarà immortale, perché, attraverso i suoi pargoli, avrà amato anche voi e voi amerete lei:

«La principessa mi ha dato un amore sconfinato e io posso lasciartelo in eredità. Anche tu puoi lasciarlo in eredità a qualcuno. Non è forse questa l’immortalità?… A proposito, che giorno è oggi?»

«Il diciannove maggio, professoressa.»

«È un bel giorno per nascere. Non puoi immaginare quanti modi ci sono per venire al mondo. E non puoi immaginare quanti ce ne sono per venire alla luce.»

Lettura consigliata!

© Antonietta Florio

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