Arthur Schopenhauer: “La vita dell’uomo oscilla come un pendolo, di qua e di là, tra il dolore e la noia, che sono in realtà i suoi veri elementi costituivi”.

Ne Il mondo come volontà e rappresentazione (1818), Arthur Schopenhauer scrive:

“La vita dei più non è che una diurna battaglia per esistenza, con la certezza della sconfitta finale. Ma ciò che li fa perdurare in questa sì travagliata battaglia non è tanto l’amore della vita, quanto la paura della morte, la quale nondimeno sta inevitabile nello sfondo, e può a ogni minuto sopravvenire. La vita stessa è un mare pieno di scogli e di vortici, cui l’uomo cerca di sfuggire con la massima prudenza e cura; pur sapendo, che quand’anche gli riesca, con ogni sforzo e arte, di scamparne, perciò appunto si accosta con ogni suo passo, ed anzi vi drizza in linea retta il timone, al totale, inevitabile e irreparabile naufragio: alla morte.”

La convinzione che la vita non abbia un significato e un sentimento di perenne insoddisfazione addita Schopenahuer come il filosofo dello smascheramento:

“È davvero incredibile, come insignificante e priva di senso, vista dal di fuori e, come opaca e riflessiva, sentita dal di dentro, trascorra la vita di quasi tutta l’umanità. è un languido aspirare e soffrire, un sognante traballare attraverso le quattro età della vita fino alla morte, con accompagnamento d’una fila di pensieri triviali”. (da Il mondo come volontà e rappresentazione)

L’opportunità di viaggiare nel cuore dell’Europa, di frequentare ambienti stimolanti da un punto di vista sia morale che culturale, fa nascere in lui un sentimento di chiusura verso il mondo esterno, un senso di amarezza, di dolore e noia che lo accompagneranno fino alla morte, nel 1860. Il pessimismo che caratterizza il suo pensiero è sì analogo a quello che Leopardi formulerà un decennio più tardi, ma tra i due vi è una differenza che non può passare in sordina. Infatti, se il poeta di Recanati esprime simpatia verso gli altri uomini, la cui coalizione e collaborazione è l’ingrediente fondamentale per sconfiggere le ingiustizie e le sopraffazioni, Schopenahuer approda a un rifiuto totale dell’esistenza. Attratto dalla filosofia orientale, più propriamente dall’induismo e dal buddhismo, prende coscienza del carattere effimero e fragile della condizione umana, del suo fluire perenne senza meta né scopo e la cui unica preoccupazione è quella di “ammazzare il tempo”:

“Quel che tutti i viventi occupa e tiene in molto è la fatica per esistenza. Ma dell’esistenza, una volta che sia loro assicurata, non sanno cosa fare: perciò il secondo impulso, che li fa muovere, è lo sforzo di alleggerirsi dal peso dell’essere, di renderlo insensibile, di “ammazzare il tempo”, ossia di sfuggire alla noia. Quindi vediamo, che quasi tutti gli uomini al riparo dei bisogni e delle cure, quand’abbiano alla fine rimosso da sé tutti gli altri pesi, si trovano esser di peso a se stessi, e hanno per tanto di guadagnato ogni ora che passi, ossia ogni sottrazione fatta a quella vita appunto, per la cui conservazione il più possibile lunga avevano fino allora impiegate tutte le forze.” (da Il mondo come volontà e rappresentazione)

La risposta all’interrogativo “Che cos’è il mondo” pone Schopenahuer in una duplice posizione. Da un lato adotta la prospettiva della rappresentazione intellettuale o della scienza, dall’altro la prospettiva della volontà. Per ciò che concerne la scienza, e in sinergia con la filosofia induista, il mondo è una mia rappresentazione, laddove la rappresentazione – fugace e ingannevole come i sogni – è un modo di guardare la superficie della realtà, senza coglierne l’intima essenza. Essa mostra, dunque, un insieme di immagini o fenomeni, ovvero di cose che appaiono ma che non sono: non si conoscono realmente il sole e la terra, ma il primo si vede per mezzo dell’organo visivo, con la seconda si ha un contatto mediante la mano. Ne consegue che il mondo, e per estensione la vita, è mero apparire, sogno, illusione; da qui la metafora: il velo di Maya, ossia una barriera che coprendo il volto delle singole cose impedisce all’uomo di scorgere la vera essenza del mondo. Per Schopenahuer, la sperimentazione della vita attraverso la rappresentazione non che è falsità e illusorietà. “I fenomeni non si risolvono in ciò che vediamo, ma rimandano a qualcosa di ulteriore che visibile non è, ma dal quale derivano e del quale provano l’esistenza” (G. Reale, I Presocratici). Squarciare il velo di Maya – ed ecco il nucleo del pensiero schopenahueriano – permette di attingere “la cosa in sé” (il noumeno), che nel pensiero filosofico kantiano è pensabile, ma non raggiungibile e serve a tracciare i confini della conoscenza.

Contrariamente, la definizione del mondo come volontà di vivere (Wille zum Leben) coinvolge tutti gli esseri viventi e li condanna fatalmente all’infelicità, al dolore e alla noia. Se la vita è volontà, allora è necessariamente anche dolore. In effetti, il volere coincide con il dolore, perché volere significa desiderare e il desiderio non è altro che una condizione di privazione, l’assenza di qualcosa che si vorrebbe avere. Pertanto, l’essere umano è per sua natura “mancante”: è in uno stato di ricerca perenne, senza mai raggiungere la quiete dell’appagamento definitivo in grado di colmare il vuoto dell’esistenza e di placare i suoi sentimenti di tormento e inquietudine:

“Ogni volere scaturisce da bisogno, ossia da mancanza, ossia da sofferenza. A questa dà fine l’appagamento; tuttavia per un desiderio, che venga appagato, ne rimangono almeno altri dieci insoddisfatti; inoltre la brama dura a lungo, le esigenze vanno all’infinito; l’appagamento è breve e misurato con mano avara. Anzi, la stessa soddisfazione finale è solo apparente: il desiderio appagato dà tosto luogo a un desiderio nuovo; quello è un errore riconosciuto, questo un errore non conosciuto ancora. Nessun oggetto del volere, una volta conseguito, può dare appagamento durevole, che più non muti: bensì rassomiglia soltanto all’elemosina, la quale gettata al mendico prolunga oggi la sua vita per continuare domani il suo tormento. Quindi finché la nostra conscienza è riempita della nostra volontà; finché siamo abbandonati alla spinta dei desiderii, col suo perenne sperare e temere; finchè siamo soggetti del volere, non ci è concessa durevole felicità né riposo”. (da Il mondo come volontà e rappresentazione)

Da qui la conclusione che la vita è dolore, un’oscillazione continua tra il desiderio e la noia, fra i quali si pone un appagamento fugace e parziale: una volta conseguito il piacere, l’inquietudine del desiderio tormenta nuovamente l’animo dell’uomo. Questi, a differenza degli altri animali, si stupisce della propria esistenza e quanto più ha consapevolezza della propria drammatica sorte, quanto più la coscienza è elevata e l’intelligenza è acuta tanto più l’intensità del dolore aumenta.

Eppure, nonostante il male sia l’essenza e il principio del mondo, ad esso, secondo Schopenahuer c’è rimedio. è necessario, però, che l’uomo intraprenda un percorso di redenzione, che consta di tre momenti (giustizia, compassione, ascesi) per giungere alla noluntas, ossia all’esperienza del nulla, che in fondo non è che la conquista del tutto, un oceano di serenità. È la negazione della volontà, “la possibilità di spegnere la fiamma che anima il volere”.

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