Italo Calvino, Il castello dei destini incrociati

«Chi scende nell’abisso della Morte e risale l’Albero della Vita, – con queste parole immaginavo fosse accolto l’involontario pellegrino, – arriva nella Città del Possibile, da cui si contempla il Tutto e si decidono le Scelte.» (I. Calvino, Il castello dei destini incrociati)

«La forza dell’eremita si misura non da quanto lontano è andato a stare, ma dalla poca distanza che gli basta per staccarsi dalla città, senza mai perderla di vista.» (I. Calvino, Il castello dei destini incrociati)

Immaginate di essere in viaggio e, sopraggiungendo la notte, col venir meno della luce, cui si aggiunge una buona dose di stanchezza, siate costretti a fermarvi in un castello lungo la strada. Immaginate di varcarne la soglia e di incontrare altri viandanti, dame e/o cavalieri, alchimisti che siano, seduti attorno a un tavolo illuminato da candele.

Immaginate, ancora, di non avere la forza di parlare, che le parole, bloccate in gola, impediscano di comunicare con il resto dei commensali, quando ad un tratto, un uomo – probabilmente il castellano – mette a disposizione un mazzo di carte da gioco. Uno di quelli di cui solitamente le zingare si servono per le loro preconizzazioni e dinanzi alle quali le reazioni sono pressoché variegate.

Il silenzio umano sostituito dalla “parola” dei tarocchi, la parola affidata alle carte, è la forza motrice di questo romanzo fantastico di Italo Calvino, Il castello dei destini incrociati. Suddiviso in due parti, di cui l’una è ambientata nel castello e l’altra in una taverna (che originariamente ne aveva dato il titolo), è pervaso da un’atmosfera fantastica, che non esclude tuttavia un rimando alla realtà.

A ben vedere, infatti, i sedici racconti che compongono l’intero romanzo, se pure non si può dire che abbiano una vera e propria morale e non consentono quel processo di identificazione e immedesimazione tra il personaggio e il lettore, sono ben radicati in situazioni reali.

È altresì opportuno chiarire che le carte di cui si servono questi cavalieri non hanno nulla a che vedere con la lettura del destino, perché

«non sembrava che alcuno di noi avesse voglia di mettersi a iniziare una partita, e tanto meno di mettersi a interrogare l’avvenire, dato che d’ogni avvenire sembravamo svuotati, sospesi in un viaggio né terminato né da terminare. Era qualcos’altro che vedevamo in quei tarocchi, qualcosa che non ci lasciava più staccare gli occhi dalle tessere dorate di quel mosaico.»

La meticolosità e la particolarità delle descrizioni di Calvino si accompagna alla raffigurazione delle carte poste su ogni lato delle pagine, come fossero indicatori stradali per agevolare il lettore nella fruizione del testo.

Ognuno dei commensali, dunque, nonostante l’incapacità di conversare avverte il desiderio o bisogno di raccontare la propria storia, felice o infelice che sia, e il titolo che l’autore dà al romanzo risulta appropriato in virtù del fatto che i singoli personaggi, usando l’uno le carte dell’altro, incrociano le loro storie, i loro destini appunto, e finiscono con l’essere coinvolti tutti indistintamente nel medesimo reticolo.

Amore e odio, verità e bugie, armi e duelli, scelte e rinunce, arte e scrittura solo alcuni dei concetti che affiorano nei racconti, àncorandosi poi in talune frasi rivelatrici, dense di significati:

«come nel mondo dell’uniforme gli oggetti e i destini ti si squadernano davanti intercambiabili e immutabili, e chi crede di decidere è un illuso.»

Frasi che, talvolta, diventano un’interrogazione, come ad esempio nella seconda parte del racconto, quando nella taverna, taluni si chiedono: «È solo il risultato del caso, questo disegno, oppure qualcuno di noi lo sta pazientemente mettendo insieme?». Non solo.

Calvino, con la sua penna estremamente sottile, non manca di toccare anche temi delicatissimi, quali il complesso rapporto genitori-figli, il matrimonio quale compromesso egoistico che finisce col lacerare la società, la ricchezza come sinonimo di sentimenti megalomani, per giungere infine a una mesta consolazione.

Se per Faust «Il mondo non esiste», per Parsifal,

«Il nocciolo del mondo è vuoto, il principio di ciò che si muove nell’universo è lo spazio del niente, attorno all’assenza si costruisce ciò che c’è, in fondo al gral c’è il tao»

Pertanto, ogni storia, la storia di tutti noi non è altro che una giostra oscillante fra due poli, il tutto e il nulla. La vita è una storia, un’avventura, un’esperienza variegata e proteiforme, composta da incontri talvolta fortuiti, talvolta mancati, amori distrutti, parole non dette, pensieri segreti e reconditi che mai verranno alla luce, se non per mezzo della scrittura, quale catarsi.

Una sospensione continua, una lotta perenne con noi stessi. Ma il sostrato su cui poggia il tutto è che “il tarocco numero uno” siamo noi, presi individualmente; noi che, di volta in volta, scegliamo (o crediamo di scegliere) se fare la parte del giocoliere o dell’illusionista, che “spostiamo, connettiamo e combiniamo le figure nei modi più vari, ottenendone di conseguenza effetti sempre nuovi”.

© Antonietta Florio

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Un commento

  1. Avendo letto tempo fa il libro non è stata, a mio parere, soddisfacente l’interpretazione che ha fatto dei tarocchi. Sicuramente è stata una personale idea lontanissima dalla conoscenza millenaria e simbolica della pratica. Una lettura superficiale per decifrare il destino di ognuno.

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