«Riepilogando, allora: la felicità è la massima realizzazione di sé rispetto al proprio potenziale, e il suo punto più alto, almeno su questa terra, è la consideratio, l’intelletto finalmente libero, che ha alle sue spalle tutta la fatica dell’apprendimento e afferra il cielo intero in un solo colpo d’occhio. La felicità umana, insomma, è il punto d’approdo di un processo, di un percorso di formazione, che in definitiva consiste nella scalata al monte Purgatorio (la vita attiva) fino alla sua cima, il Paradiso terrestre, che rappresenta l’apice della felicità terrena (la vita contemplativa, la consideratio).» (F. Fioretti, Non di solo amore. La via dantesca alla felicità)

La quaestio de felicitate (titolo di un trattato di forma aristotelica di Giacomo da Pistoia e dedicato all’amico Guido Cavalcanti) è il tema intorno al quale ruota il romanzo di Francesco Fioretti, Non di solo amore. La via dantesca alla felicità, il cui protagonista è Stefano Deaglio, professore di lettere in un liceo di provincia e autore di un romanzo di successo.
Marito e padre di famiglia, Deaglio nutre un profondo amore per Dante, il Vate che durante l’adolescenza gli ha salvato la vita («Aveva vissuto la sua adolescenza come una brutta malattia da cui adesso era contento di essere guarito»), gli ha spianato il terreno per il suo rinascimento interiore, (ri)trovando la “diritta via ch’era smarrita”.
«Un buon libro ti salva da tutto, anche da te stesso», scrive Daniel Pennac. Ed effettivamente la letteratura dantesca è stata per Deaglio uno strumento di salvezza, locus di rifugio dal malessere esistenziale e di pax interior, limbo dell’amore e della felicità. Se i suoi coetanei si divertivano a giocare a calcio, il suo divertimento era costituito dal profumo dei libri, dalla lettera scritta.
Da qui, l’intento di scrivere un saggio che – seguendo le lectiones imperiture e sempre contemporanee di Dante – conduca dalla condizione di miseria in hac vita (in questa vita) ad statum felicitatis, alla felicità, a riveder le stelle. Qualcosa di apparentemente semplice insomma, ma che, in realtà, si presenta più complicato del previsto, quando alla fatidica domanda “che cos’è la felicità?”, non si sa (o non è possibile?) dare una risposta pienamente soddisfacente.
Come Sant’Agostino “sa cos’è il tempo, ma se me lo chiedi non lo so più”, allo stesso modo nel definire la felicità, la confusione regna sovrana. Prova ne sia la differenza dei termini e del loro significato presso i Greci e i Romani. I primi utilizzano il sostantivo eudaimonia, riferendosi a una condizione di benessere spirituale, a uno stato dell’anima (l’ataraxìa di epicurea memoria), una conquista interiore; i secondi, al contrario, adoperano il sostantivo di felicitas,identificando la felicità con il prodotto interno lordo, con il fattore puramente economico.
Ma sia in greco, sia in latino, la “felicità” non fa soltanto registrare una contrapposizione, con conseguente superiorità dell’istinto sulla volontà, è altresì una questione di linguaggio, di retorica, una tecnica del racconto, e per ciò stesso, una trappola. Qui, osserva l’insegnante, sta la modernità di Dante:
«Le parole possono modificare la biochimica del nostro corpo, la nostra complessione, più o meno quanto una corretta alimentazione: serve altro? Praticare buone letture è altrettanto importante che rifornirsi di buon cibo; coltivare l’espressione, ragionare con lucidità, saper dare i nomi giusti ai nostri umori e alle nostre emozioni è tanto utile quanto lo è una sana nutrizione. E Dante l’aveva appena compreso.»
Tale impasse, acuita poi dalla tempestosa vita uxoria, causa l’interruzione della stesura del saggio di Deaglio su Dante e la felicità, innescando un loop mentale tale da provocare in lui uno sconforto sempre maggiore:
«Ma in fin dei conti era per questo che non riusciva a portare a termine quelle lezioni: se lui non era “felice” – e non lo era per niente – che senso aveva scrivere un libro per insegnare agli altri la via per la “felicità”? E che senso aveva anche in genere insegnare? Nessun senso, per uno come lui che aveva sempre ritenuto che, per un educatore, essere “felice” dovrebbe essere un obbligo morale. Perché si deve trasmettere ai giovani il desiderio ardente di affrontare con entusiasmo la fatica di crescere…»
Eppure, al giorno d’oggi, essere felici è un’impresa ardua quanto più la felicitas o l’eudaimonia è, e non può essere altrimenti, connessa al lavoro, all’elemento materiale: per affermarsi nella società è necessario “avere una posizione”. Qui la critica di Alberto Moravia, attraverso il personaggio di Riccardo Molteni ne Il disprezzo, trova la sua piena ragione d’essere:
«Ora, a ventisette anni, si hanno invece quelli che di solito si chiamano degli ideali… e il mio ideale è scrivere per il teatro… Perché non posso farlo? Perché il mondo oggi è congegnato in modo che nessuno può fare quello che desidererebbe e deve invece fare quello che gli altri desiderano… Perché c’è sempre di mezzo il denaro, in quello che facciamo, in quello che siamo, in quello che vogliamo diventare, nel nostro lavoro, nelle nostre aspirazioni migliori, persino nei nostri rapporti con le persone che amiamo.”»
Ecco il tradizionale distinguo tra felicità terrena e felicità celeste, che Dante in un certo senso scardina, concependo le due suddette forme di felicitas come le due facce di una stessa medaglia, l’appagamento terreno propedeutico alla beatitudine celeste. Il problema, tuttavia, resta pur sempre lo stesso, qual è la definizione della felicità?
Tanto illuminante quanto emozionante è, una volta di più e soprattutto in questo romanzo di Francesco Fioretti, l’importanza della cultura classica. L’antichità classica greco-romana, dispensatrice di valori morali, maestra di saggezza viene qui sintetizzata con il concetto aristotelico di entelechia, «l’adempimento compiuto di un ente in relazione ai propri fini». O, per dirla più semplicemente, «è la massima realizzazione di sé rispetto al proprio potenziale di partenza».
Ciò è il risultato di un percorso ascensionale, dalla vita activa (agire, fare, operare) alla vita contemplativa, dal lavoro – per così dire – manuale al lavoro intellettuale, l’otium ciceroniano, che nulla ha a che vedere con “il dolce far nulla”.
Non solo, ma il processo di formazione per il compimento del proprio potenziale è paragonabile al viaggio dantesco nei tre regni ultraterreni, un esperire viatico che va dal buio al lumen, faticoso e pesante all’inizio, leggero quando finalmente si raggiunge la vetta, quando si recupera, appagandola, la speranza de l’altezza:
«In che mondo vivi? Non lo sapevi? Quando si è raggiunto l’apice del labor acquirendi, quando si toccano le vette vertiginose dell’intelletto acquisito, quando la mente è diventata capace di afferrare tutto l’universo della propria arte in un solo colpo d’occhio, non si può fare a meno di librarsi nel paradiso creativo e alato della contemplazione pura. In altre parole: si vola.»
Deaglio-Dante, dunque, ed è questa la lectio di Francesco Fioretti, è che la felicità è un atto fenomenologico, in quanto deve essere costruita e conquistata, ma è anche un destino, e in quanto tale innato, poiché anche senza rendersene conto, l’aspirazione dell’uomo è l’assoluto.
In questo cammino verso la felicità, nonostante la forza e la determinazione, può capitare di perdersi nella selva oscura del mondo, di smarrire la bussola, di imboccare la strada sbagliata, di sentirsi in balìa di un vento forte e implacabile. L’importante è non perdere di vista l’obiettivo.
Il modus dicendi “Life is now” deve essere sostituito dal “Life is Later”, «La vita è oltre. Sempre». L’Inferno è il luogo della fissazione, della staticità, dell’eterno ritorno dell’identico, della perdita di senso del divenire, cui fa da contraltare il Purgatorio, la montagna da scalare, un percorso in salita per accedere al Paradiso, là dove viene soddisfatta finalmente la speranza de l’altezza, là dove si vive l’esperienza del trasumanare e dell’indiarsi.
L’invito è, allora, di vivere il presente, di massimizzarlo e di ottimizzarlo, seguire il bene che, per Dante, trionfa e sempre trionferà sul male. E poi c’è l’appello a guardare verso il futuro, a pianificarlo, con una buona dose di ottimismo. Pertanto, la felicità è in noi, il paradiso dobbiamo cercarlo in noi stessi, non all’esterno, non in qualcun altro, nel qual caso significherebbe schiavizzarsi e perdere la propria libertà interiore.
A corredo del romanzo, l’autore esprime chiaramente il debito che noi moderni dobbiamo avere – e dovremmo averlo sempre e per sempre – verso i classici, i quali “sanno cose che oggi abbiamo dimenticato”, e che è opportuno riportare in auge. È per mezzo di essi che si può guardare con fiducia all’avvenire, che si può vivere con consapevolezza; sono loro che
«ci insegnano a sollevare la testa sopra il chiacchiericcio sterile, autoreferenziale, spesso volgare che ci circonda e a immaginare una volta tanto consapevolmente il futuro – come noi siamo il loro, quello che loro hanno pensato e contribuito a creare alzando lo sguardo appena al di sopra delle miopi pulsioni dei tempi che toccarono loro in sorte. Quanto ancora dobbiamo imparare dai classici di tutti i tempi!»
Un libro da leggere e da rileggere, da tenere sempre a portata di mano, soprattutto quando la vita sembra una nomadland, quando niente, o quasi niente, sembra andare per il verso giusto.
Le parti narrative, sapientemente e logicamente concatenate a parti saggistiche, sono un balsamo per l’anima, l’antidoto a una realtà che talvolta mette a dura prova la nostra integrità, vuoi morale o psicologica. Un libro che può diventare uno strumento di salvezza, una boccata d’ossigeno. E Dante, figura princeps, vi è descritto non tanto (o soltanto) come autore della Comedìa, ma come amico di tutti. L’amico più prezioso, che sa dire le cose giuste, con le parole giuste, al momento giusto. Dante, uno di noi, ma oltre noi.
Lettura consigliata!
© Antonietta Florio
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